Il mio primo incontro con la Letteratura in carne e ossa fu traumatico. Ero un ragazzino che leggeva avidamente i Canti di Leopardi, una passione monomaniacale. A una cena di amici dei miei genitori mi ritrovai seduto a fianco di un signore che sembrava importante, perché tutti gli si rivolgevano con deferenza. A chi passava per salutarlo rispondeva con degnazione, forse infastidito dal fatto che lo distraevano dal suo insistente corteggiamento a una bionda vistosa che gli stava davanti. Mi colpì il suo eloquio forbito che pareva una recita, le pause studiate ritmate dalle boccate di fumo, la gestualità enfatica, il timbro della voce che sottolineava le frasi ad effetto, la finta commozione trattenuta ricordando un collega scomparso poco prima. Mi venne detto che era uno scrittore famoso, ora non rammento neanche il nome. Ricordo però che appena rimasi solo presi coraggio e gli chiesi: “così lei scrive?”, e lui rispose: “no figliolo, io non scrivo, pubblico”. Diventai rosso in viso, il cuore mi batteva forte, e fui contento del fatto che a quella figuraccia non avessero assistito i miei.
Ci pensai molto in seguito, a questa dicotomia, soprattutto nel momento in cui cominciai a scrivere. Mi convinsi che non ero uno scrittore ma uno scrivente. Per diventare scrittore dovevo essere pubblicato. Poi, un giorno, passeggiando con Piersandro Pallavicini, compresi che quella dicotomia era falsa. Eravamo stati avvicinati da un extracomunitario che voleva venderci un libro, qualcosa tipo Imbarazzismi, quei volumi che vengono venduti per strada, e Pallavicini mi spiegò che avevano tirature altissime, perfino 30.000 copie per certi titoli. Capii allora che se non basta scrivere, non basta neppure essere pubblicati. Infatti quei libri venduti per strada, che io stesso in qualche occasione ho comprato senza poi leggerli, sono più un obolo che altro, una forma apparentemente elegante e civile di elemosina. E così un conto è scrivere, un altro è pubblicare, un altro ancora è vendere, ma il gradino più alto e difficile da raggiungere è essere letti, trovare qualcuno che ti presti la sua attenzione, che senza conoscerti decida di dedicarti del tempo per ascoltare quello che hai da dire.
Forse il valore aggiunto dei lit-blog sta proprio in questo. Pubblicare su carta, anche su un quotidiano nazionale che il giorno dopo è consultabile gratuitamente in rete, non dà la stessa sensazione. Ti sembra un’attività onanistica, scrivi e ti leggi da solo. Su un blog hai l’esatta, immediata percezione che le tue parole hanno un peso e un destinatario. Lo spazio dei commenti a volte fa incazzare, somiglia ai microfoni aperti di Radio Radicale, l’anonimato può incitare alla battuta denigratoria gratuita, ma comunque c’è un riscontro, positivo o negativo che sia. E la partecipazione dell’autore nello spazio dei commenti è la prova che quando ti si presta attenzione questa attenzione va ricambiata, perché i prestiti si restituiscono.
Senza volerlo ho usato un lessico economico: “prestare”. Quando fu istituita la prassi dei “debiti” e “crediti” formativi inorridii. Mi parve un’oscenità il fatto che si inculcasse nei giovani studenti l’idea che nella vita è tutta questione di debiti e crediti. Il lessico economico è diventato l’alfabeto del mondo, ha contaminato pure la burocrazia scolastica. Una domenica, girando per le sale semivuote del Museo del Castello Sforzesco, origliai i discorsi di un paio di amiche quarantenni. Questioni di cuore: una delle due doveva essersi separata da poco. Parlava male dell’ex, che evidentemente l’aveva tradita e abbandonata. Anche lì i suoi discorsi erano infarciti di terminologia economica, da compravendita commerciale. Diceva frasi come “ho investito molto in quel rapporto”, “me l’aveva venduta come una semplice amica” ecc. Credo sia qualcosa di ineluttabile, cui non ci si può sottrarre.
Uscito dal museo andai in un bar, dove mi raggiunse più tardi C., un amico conosciuto tramite la mia ex fidanzata. Eravamo seduti al tavolino sul marciapiede quando il suo cellulare suonò. Lui iniziò a parlare e la sua conversazione, che non pareva essere particolarmente importante, tanto che era lui a riattizzarla di continuo, si protrasse molto. Forse indovinando il mio disagio, quando la interruppe mi disse, quasi a scusarsi, “sai, da quando ho la ricarica automatica mi rendo conto di far parlare più a lungo chi mi chiama”. Un sistema perfettamente lecito, anzi istigato da una pubblicità ossessiva, che ti suggerisce che il tuo vantaggio economico dipende da quanto più fai pagare gli altri, in particolare le persone care, cioè le uniche che conoscono il tuo numero di cellulare, a me pare una bestialità. Una bestialità che tutti trovano normale, sulla quale nessuno sembra aver niente da ridire. Non so più chi l’ha detto, credo Noam Chomsky, ma la parafrasi della celebre sentenza di John Fitzgerald Kennedy, “non chiederti cosa tu puoi fare per lo Stato, chiediti cosa lo Stato ti sta facendo”, mi sembra perfetta per illustrare la nostra condizione attuale.
Da quando mi sono separato non ho più visto C. Capita spesso che, assieme alle cose, con una separazione ci si divida pure le amicizie. Mi spiace perché c’era una buona intesa fra noi, avevamo molti interessi e passioni comuni. Chissà, probabilmente non lo rivedrò mai più. In tedesco pare che si chiami Torschlusspanik, “il panico da chiusura del portone”, quella brutta sensazione che ti prende di fronte ai piccoli, inconsapevoli addii quotidiani. Credo sia per questo che mi piace tanto la poesia di Borges che s’intitola Limiti (tratta da El Otro el mismo, del 1964).
Si para todo hay término y hay tasa
y última vez y nunca más y olvido
¿quién nos dirá de quién, en esta casa,
sin saberlo, nos hemos despedido? […]
Tras el cristal ya gris la noche cesa
y del alto de libros que una trunca
sombra dilatada por la vaga mesa,
alguno habrá que no leeremos nunca
Ecco: quel libro riposto sullo scaffale, intonso, che non riusciremo mai a leggere, incombe su di noi come qualcosa che sta a misurare la durata delle nostre vite. Forse, nel desiderio di leggere quanto più possibile, e nella folle speranza che nulla finisca mai per davvero, c’è anche l’illusione di fermare il tempo che scorre inesorabilmente, la finzione di procrastinare l’irreparabile. E chissà che anche la scrittura non nasca da questa paura della morte, come fa il polipo quando butta fuori inchiostro. Ma tutto ha una scadenza, e vale anche per noi quel che sentii dire in un documentario televisivo sugli animali, quando lo speaker spiegò che gli elefanti e le farfalle, pur vivendo esistenze dalle durate molto diverse ( i primi fino a cent’anni, le seconde solo pochi giorni), hanno in sorte lo stesso numero di battiti cardiaci, ossia più o meno tre miliardi.
Il libro di Tiziano Scarpa che preferisco s’intitola Corpo. Tempo fa, durante una festa di capodanno in casa di amici nel centro di Firenze, dichiarai questa mia predilezione a un critico che insegna in quella università. Mi guardò male, sorrise e disse: “davvero ti piace quella fesseria?” Tacqui, non sapevo che rispondere. Solo dopo essere uscito da quell’appartamento, appena varcato il portone, mi venne in mente la battuta giusta. Mi dicono si chiami esprit de l’escalier, quella mancata prontezza di riflessi, perché la battuta giusta ti viene in mente solo sulle scale, quando ormai è tardi. Potessi tornare indietro, gli direi che quando un libro e una testa, scontrandosi, emettono un suono fesso, non è detto che la colpa sia sempre del libro.
In seguito venni a sapere che la stroncatura di quel critico a Corpo non era stata solo orale. Mi chiedo spesso che effetto fa leggere la stroncatura di un proprio libro. Più di venti anni fa, in un dibattito sui giornali, Umberto Eco difese il valore pedagogico delle stroncature, sostenne che uno scrittore, vedendosi stroncato, può correggersi, rettificare errori di fatto. Manganelli replicò che bisognava ignorarle, che questo è il prezzo da pagare perché pubblicare significa esporsi al giudizio del pubblico. Pensavo anch’io così, finché non lessi El mal de Montano di Enrique Vila-Matas, dove si riferisce la prima feroce stroncatura che subì Borges nel 1933 ad opera di Ramón Doll, un critico suo coetaneo. A Doll non era piaciuto Discusión, una raccolta di saggi pubblicata l’anno precedente. Nella recensione si diceva: “Questi articoli, bibliografici per l’intenzione e il contenuto, appartengono a quel genere della letteratura parassitaria che consiste nel ripetere male cose che altri hanno detto bene; o nello spacciare per inedito Il Don Chisciotte e il Martin Fierro“. Per Vila-Matas, che invece riassume bene un pensiero di Alan Pauls, Borges non rifiutò la dura condanna di Doll, ma ebbe l’intelligenza di convertirla in un programma artistico proprio, in pratica traendo guadagno da ciò che molti considererebbero un fallimento. Gli opera omnia di Borges abbondano infatti di questi oscuri personaggi subalterni, di queste comparse che vivono di luce riflessa, che seguono come ombre fedeli il cammino di un’opera o di un personaggio più luminosi. Traduttori, copisti, esegeti, interpreti, bibliotecari, annotatori di testi sacri, tutta una galleria di splendidi parassiti, di creature anonime e marginali di cui Pierre Menard costituisce sicuramente l’apice e il coronamento in questa ammirevole etica della subordinazione.
Ad ogni modo, non è improbabile che neppure Scarpa consideri Corpo una delle sue cose migliori. Le sue opere più ambiziose sono altre. A me piace soprattutto per l’andamento, e in qualche misura pure per l’assenza di ambizione. E’ un’autoscopia che prende avvio dall’ombelico e finisce col cuore. Meneghello una volta ha detto che la letteratura è sempre autobiografica. Lo scrittore attinge al proprio vissuto o alle proprie fantasie, ma in ogni caso il punto di partenza è sempre il famigerato ombelico. L’importante è che non sia autobiografico il punto di arrivo. Qualsiasi esperienza, per minima che sia, contiene in sé i semi della realtà a cui appartiene, quasi il DNA del reale. Il difficile sta nell’individuare, estrarre e svolgere quel DNA, solo così la scrittura non resta confinata in una dimensione solipsistica, ma acquista un valore paradigmatico, grazie al quale ciascuno si può riconoscere in quelle parole. Corpo inizia con l’ombelico ma termina coi battiti del cuore, il numero di battiti che ognuno ha a disposizione nell’arco di una vita. Quello per me è il DNA che ha trovato Scarpa. Mi sorprese molto leggere in quel libro che i battiti cardiaci che abbiamo a disposizione sono circa tre miliardi, proprio come per gli elefanti e le farfalle. Il destino di tutte le creature, così come i limiti, è comune.
Il giorno successivo andai a prendere il treno alla Stazione di Firenze. Era la mattina del primo dell’anno, piovigginava e la città era deserta. Passando per via dei Banchi vidi la lapide che commemora il soggiorno in quella casa di Giacomo Leopardi. Abitava lì da solo, in una camera in affitto con due finestre affacciate su Piazza Santa Maria Novella, quando il 4 dicembre 1832 scrisse l’ultimo appunto del suo Zibaldone dei pensieri. Dice: “L’uomo resta attonito di vedere verificata nel caso proprio la regola generale”.
marzo 31, 2009 alle 8:09 am |
il post è splendido e, come in altri casi c’è un momento, quando hai finito che davvero resti senza fiato, non sai che dire, perchè forse è già stato detto tutto e ogni altra parola sull’argomento sarebbe inutile… immagino sia anche una questione di fiducia, voglio dire che uno viene qui e legge e (forse) posta di nuovo un commento non solo perchè hai catturato la sua attenzione, ma anche perchè ti dà fiducia: in effetti non cambia nulla, così come per i libri non letti, non cambia niente, non c’è niente di più brutto che vedere un proprio post senza un solo commento, continui a chiederti se qualcuno ha letto, se a qualcuno è piaciuto…
però una domanda ce l’ho in effetti: visto che non solo scrive ma è anche pubblicato ed è persino letto, ma da tanti!, allora moccia (o melissa p. o baricco o ecc…) è uno SCRITTORE, esattamente QUANTO borges? voglio dire, chi decreta le differenze? e con quali criteri? e con che autorità? (lo so che magari è una domanda vecchia quanto il mondo, ma in fondo non facciamo che girare su quelle, e mi interessa molto la tua opinione, questione di fiducia) 😉
marzo 31, 2009 alle 11:24 PM |
grazie antonio, soprattutto per la fiducia. io volevo dire solo che, per un aspirante scrittore, porsi come obiettivo quello della pubblicazione, arrivando in certi casi perfino ad autoprodursela, significa non comprendere che il vero traguardo è quello di essere letti. è lì che uno si spende veramente, quando ti dedica del tempo. che poi siano 25, come diceva ipocritamente manzoni, o milioni come moccia, non è ovviamente questo che determina la differenza qualitativa di un testo, se no mc donald sarebbe il miglior ristorante del mondo. credo insomma che ogni autore si auguri innanzitutto l’incontro con un lettore complice, e speri, in cuor suo, che lettori di questo tipo ce ne siano tanti. il critico è solo l’ultimo di una serie di filtri, già decidere di pubblicare un testo anziché un altro da parte di un editore è fare un atto critico.
aprile 1, 2009 alle 9:35 am |
esprit de l’escalier, me lo ricorderò…
bellissimo episodio: “letterariamente” è ancora più efficace, la replica immediata sarebbe stata “solo” una svelta battuta…
aprile 1, 2009 alle 8:03 PM |
ciao dario, grazie. hai ragione, è stato meglio così, l’esprit de l’escalier in quel caso è stato provvidenziale.
aprile 1, 2009 alle 9:48 PM |
a me è piaciuto 🙂
e poi questa massima
gli direi che quando un libro e una testa, scontrandosi, emettono un suono fesso, non è detto che la colpa sia sempre del libro
me la segno è F.A.V.O.L.O.S.A
georgia
ottobre 10, 2010 alle 9:26 am |
Che bello, appena svegliato, mi bevo una tazza di thé e mi leggo un garufi d’annata. Splendido.