Archive for settembre 2012
la logica delle cose
settembre 30, 2012polemiche
settembre 29, 2012Una postilla polemica a margine di un libro sulle polemiche. Gilda Policastro, in questo saggio pubblicato di recente da Carocci, mi cita in una nota. Il brano in questione (a pag.52), che rinvia alla nota n°88, lamenta gli “eccessi di autoconsacrazione narcisistica nel panorama ultracontemporaneo” da parte di alcuni autori, di contro alla “prassi decisamente autoironica” degli scrittori delle generazioni precedenti (come L’Anonimo lombardo di Arbasino, nelle cui pagine introduttive “erano radunati i migliori giudizi critici sull’opera”). Per comprovare questo scadimento epocale, nella nota si fanno due esempi. Il primo è Paolo Sortino, reo di aver inserito nel sito dove si pubblicizza il suo libro (Elizabeth) gli sms elogiativi ricevuti da giornalisti e scrittori suoi amici, oltre alle recensioni ufficiali. Il secondo è il mio romanzo, sul quale è stata apposta “una fascetta recante un giudizio entusiastico da parte dello scrittore Tommaso Pincio, giudizio che si dovrà, evidentemente, attribuire a una comunicazione privata”. Il nesso fra i due casi l’autrice lo individua nella tendenza degli editori ad “affidarsi, per la promozione del libro, a scrittori, piuttosto che a critici, ritenuti, i secondi, sempre più marginali, quando non dannosi.”
Bon, partendo dalla fine. Non so gli altri, ma non mi risulta che Ponte alle Grazie abbia delle idiosincrasie verso i critici (e forse invece dovrebbe). La prova è che l’ultimo libro di Laura Pugno (La caccia), appena uscito, ospita in bella evidenza sulla quarta di copertina giudizi di “critici puri” come Andrea Cortellessa e Angelo Guglielmi. Riguardo a Pincio, non so bene cosa sia, se solo narratore o anche critico. So che recensisce spesso libri su Rolling Stone, ma ho visto parecchi suoi interventi pure su La Lettura del Corriere, su Alias del Manifesto e su altri giornali. E Hotel a zero stelle, la sua penultima prova narrativa edita da Laterza, presenta dei corposi inserti di critica letteraria. Indubbiamente passerà alla storia della letteratura più come narratore che altro, ma di certo non è stato solo quello, e la critica la sa esercitare molto bene. Quel “giudizio entusiastico” lo comunicò per mail a me e al mio editor, ben sapendo che sarebbe stato stampato sulla fascetta (trasformandosi così da privato in pubblico), tant’è che ne discusse una versione ridotta, più adatta allo spazio dove sarebbe stata ospitata. La stessa Policastro non è un critico puro, nel senso che ha pubblicato anche poesie e che col Farmaco ora è pure narratrice. Ed io, che ho scritto un centinaio di recensioni in dieci anni prima del romanzo, cosa sono, un critico o un narratore (e Trevi, e Piperno…)?
Quanto al giudizio di Pincio, fu una decisione del marketing di Ponte alle Grazie, quella di accompagnare il mio esordio con un consiglio autorevole. Non volevano per forza uno scrittore invece di un critico, volevano uno noto, tant’è che mi hanno anticipato che col mio prossimo libro utilizzeranno per la quarta di copertina un giudizio di Guglielmi apparso su l’Unità.
Oltre a quello di Pincio, esisteva anche un altro complimento pubblico e autorevole che sarebbe piaciuto al mio editore segnalare in fascetta. Si trattava di una frase di Tiziano Scarpa (altra figura ibrida di poeta-drammaturgo-narratore-critico, si pensi a un libro come Cos’è questo fracasso?, oppure alla sua rubrica fissa su Saturno, il defunto inserto letterario del Fatto Quotidiano), pronunciata in un’intervista rilasciata a l’Unità pochi mesi dopo aver vinto lo Strega. C’era un però, ossia che Scarpa compariva come personaggio nel mio libro, e questo rendeva inopportuna la citazione.
Così, giusto per chiarezza.
dalla parte del torto
settembre 20, 2012Ci vorrebbe Manganelli. Lo pensavo leggendo l’articolo di Francesco Piccolo sul supplemento letterario del “Corriere” a proposito dell’incapacità italiana di accettare la sconfitta. Allora ho chiesto il permesso al giornale di replicare, e la risposta è stata: “cosa non ti torna di quel pezzo?” Già, suona strano obiettare qualcosa a Piccolo. La verità è che ha ragione, in ciò che scrive tutto torna. Qualsiasi tema affronti il suo argomentare è pacato, equilibrato, saggio, ispirato al buon senso, sembra Napolitano quando auspica l’abbassamento dei toni. Leggendolo non si può non concordare, e ci si sente a posto con la coscienza, si sta dalla parte giusta. Per sostenere la tesi secondo cui noi italiani saremmo incapaci di perdere (e di vincere, esultando in modo sguaiato), Piccolo fa alcuni esempi. Uno sportivo: la gara degli 800 metri vinta dal keniano Rudisha alle olimpiadi. Piccolo ha rischiato di non vederla in diretta perché contemporaneamente c’era una semifinale di taekwondo con un italiano, e la tv stava dando priorità a quest’ultima dato che gli italiani sono “interessati solo al medagliere”. Non sono sicuro che le scelte del palinsesto olimpico interpretassero alla lettera la volontà degli italiani, e dubito che sia un vizio tipicamente nostro quello di esultare o recriminare in modo eccessivo. Guardando un’altra sfida epica delle olimpiadi, i 100 metri vinti da Bolt, ho avuto un’impressione completamente diversa. A Pechino Bolt era stato l’unico prima dello start a ostentare sicurezza esibendosi in smorfie e balletti, invece quest’anno a Londra tutti gli sprinter finalisti lo imitavano, provando a distinguersi con delle mosse particolari. Le figure che rimangono più impresse nella memoria hanno tutte a che fare con un modo di esultare originale, dal lanciatore del disco che si strappa la maglia come Hulk (e nel calcio da noi togliersela vale un’ammonizione), alla saltatrice in alto croata (Blanka Vlašić) che improvvisa balletti ammiccanti dopo aver superato l’asticella. Questo per dire che è il sistema a istigare atteggiamenti eccentrici, rendendoli appetibili per contratti pubblicitari. Ma è soprattutto l’inclinazione al piagnisteo, il nostro peggior vizio per Piccolo. E dato che il senso del suo ragionamento ricalca certe sentenze di If di Kipling, laddove invita a trattare la vittoria e la sconfitta come due impostori, mi son ricordato che a Wimbledon quel motto è inciso all’entrata come benvenuto. Lì ad esempio era McEnroe, non un italiano, chi dava spesso in escandescenze, ma il suo talento era così limpido che i tifosi americani gli accordavano senza sforzo una franchigia morale. In Open, l’autobiografia di Agassi, si dice che: “una vittoria non è così piacevole com’è dolorosa una sconfitta”. I media a quello puntano cercando le emozioni forti, ecco perché a Marco Bellocchio, dopo Venezia, i giornalisti chiedono con insistenza che si prova a restare a bocca asciutta. Il motto di de Coubertin è la foglia di fico della cattiva coscienza. Manganelli lo sapeva, tanto da sottolineare la volgarità e l’assurdità logica dell’equazione secondo cui chi vince (la guerra, le elezioni, il campionato, lo Strega) ha ragione, e da ricordarci innanzitutto che “vivere significa avere torto”. La maggioranza, per intenderci, tra Gesù e Barabba scelse Barabba. Ora, in tempi di antielitismo e aristofobia, all’intellettuale si chiede di darle voce, d’incarnare la vox populi, e i corsivi riflettono ciò che sentiresti al bar sotto casa, solo espresso e argomentato meglio; mentre anni fa gli interventi degli intellettuali provocavano, facevano discutere, non sembravano aver ragione perché ci davano ragione. Basta pensare alle posizioni di Pasolini sul referendum per l’aborto e sul tema delle manifestazioni studentesche, o a Manganelli, entrambi vere coscienze critiche del paese. Manganelli stava volentieri “dalla parte del torto”, come nel titolo del bel libro dell’altro Bellocchio, Piergiorgio. Il quotidiano “La Stampa” gli chiedeva di commentare la notizia dell’albergatore ligure che aveva cacciato un gruppo di spastici e lui faceva proprie le istanze dell’albergatore, fingeva di aderirvi, diceva “ci sono molti e fondati motivi per detestare gli spastici”. Noi oggi manco questa parola sapremmo pronunciare, figuriamoci adoperare un registro antifrastico così urtante ed efficace nel mostrarci il ribrezzo di quel modo di pensare.
(pubblicato su l’Unità, 20/9/2012)
Autografi
settembre 15, 2012A me piace molto il quartiere latino di Parigi. Da qualche parte Emanuele Trevi ha scritto che Saint-Germain gli sembra falso, come il museo di se stesso, di quando era il crocevia delle discussioni intellettuali, con i due bar letterari e le cave esistenzialiste in cui si ascoltava il jazz. Io invece lo sento ancora autentico, forse perché non vado in cerca di quelle cose, non mi siedo al Deux Magots o al Flore sperando di rivivere gli anni di Sartre e compagnia. Certo abitarci è proibitivo, le case costano un’occhio e i turisti l’assediano in continuazione, ma in qualche angolo sopravvive ancora uno slargo di quiete, come in quelle belle piazzette confidenziali tipo Place Furstenberg.
Mi piace il quartiere latino perché è elegante e ci sento ancora una tradizione colta, di buon gusto, in chi lo frequenta, tant’è che è pieno di librerie aperte fino a tardi. Poi mi piace sbirciare i negozi di tessuti d’arredamento, la mia vita precedente, e ogni tanto entro in una libreria antiquaria dove vendono autografi d’artisti. Di un paio ricevo per posta pure i cataloghi. Lì dentro mi sento in un’oasi di pace e di cultura, come se la corsa del tempo si sospendesse. Mi faccio mostrare qualche lettera di Céline, una cartolina di Kafka o di Benjamin, e sono felice. Non me le posso permettere ma faccio come se fossi in un museo, per cui mi godo la solitudine e non mi rammarico di non poter comprare. E comunque prima o poi qualcosa prenderò, in fondo non sono carissimi. E la cosa più bella, per me, è che non ubbidiscono completamente alle ferree leggi del mercato, quelle di domanda e offerta. Il vero discrimine resta l’arte. Per esempio di Cioran o Benjamin esistono pochi autografi in commercio, perlomeno rispetto a Céline, che era un vero grafomane, eppure gli autografi di quest’ultimo valgono molto di più. Questo non perché Cioran e Benjamin fossero scrittori meno importanti di Céline, ma perché nelle loro lettere adoperavano uno stile più burocratico. Scrivevano “Gentile signore”, “cordiali saluti”, “la presente per dirvi” ecc; mentre Céline scriveva lettere e cartoline come i suoi libri, in argot, coi tre puntini di sospensione, il tono esclamativo e un po’ delirante, le similitudini sorprendenti. Sono, insomma, delle piccole opere d’arte, mentre le lettere di Cioran e Benjamin hanno un mero valore documentario. E poi quelle farmacie dello spirito le amo perché sono in via di estinzione. Fra poco spariranno, come i loro vecchi e dotti titolari. Con gli sms, le mail e Word non resterà più traccia fisica di un testo: niente correzioni, sbavature e grafia tipiche di una persona. Perfino le dediche sui libri sono a rischio, se s’imporrà l’uso dei tablet per leggere; e allora io voglio godermi almeno il tramonto di questo bel mondo.
la pizza romana
settembre 14, 2012Un regalo di Pincio
settembre 13, 2012Beghe letterarie: BEE vs. DFW
settembre 6, 2012forse c’entra questa intervista
Piccole soddisfazioni
settembre 4, 2012La Libreria Utopia in via Moscova a Milano era una delle mie preferite quando vivevo lì. Ci capitavo abbastanza spesso anche perché mia sorella ha il negozio nei paraggi. Una volta vidi che si dilettavano a fare l’editore, difatti ci andai per la presentazione di un blasfemo libro postumo di Giorgio Manganelli (Intervista a Dio, sedizioni all’Utopia, 11 euro) a cui era presente la figlia Lietta; libro che in seguito mi fu assicurato da Andrea Cortellessa essere addirittura un falso, ma che contiene molti passi inequivocabilmente manganelliani. In generale non sono un patito delle piccole librerie, e neppure uno di quelli che cerca il rapporto speciale col libraio di fiducia che gli consiglia le chicche da non perdere. Preferisco sbagliare da me, scegliere leggendo un brano a caso o facendomi irretire dalla copertina. A Roma, per esempio, la mia libreria preferita è la Notebook dell’Auditorium, enorme e con un grande assortimento. Dentro ci sono delle comode panche e se sono squattrinato la uso come una biblioteca, leggo e non compro. Però una differenza sostanziale c’è tra la piccola libreria di gusto e la libreria enorme che ha tutto: la vetrina. Comporre una vetrina è un modo molto discreto di consigliare dei testi, e la scelta di non esporre i titoli in classifica è coraggiosa, perché scontenta la maggioranza dei lettori. All’Utopia c’erano sempre esposti libri curiosi e un po’ marginali, e su dieci titoli almeno tre potevano interessarmi. Nelle grandi librerie come la Notebook o le Feltrinelli invece le vetrine sono popolate esclusivamente da best seller, che mi lasciano indifferente. Ecco perché fui felice quando poco dopo l’uscita del mio libro ricevetti questa foto per mms che lo ritraeva – solo italiano in compagnia di grandi autori stranieri come Andrés Neuman – nella vetrina dell’Utopia.
In giro
settembre 1, 2012Ieri ho passato una bella serata a Picinisco, un piccolo borgo della Val di Comino, nel frusinate, per il Festival delle storie organizzato da Vittorio Macioce. Stavo lì sotto un torrione medievale diroccato assieme a Filippo Tuena, Fabio Bussotti (autore de Il cameriere di Borges, PerdisaPop) e Stefano Ciavatta come moderatore. Il tema in discussione era “lo scrittore come personaggio”, cioè la narrativa d’ispirazione autobiografica, e se ne è parlato in modo non noioso, credo (spero). La ragazza di spalle è Carolina Cutolo, la cui presentazione sarebbe iniziata subito dopo la nostra. Il pubblico non si vede ma c’era ed era numeroso, anche perché quella era una sorta di notte bianca per gli abitanti del posto. Insomma, sono stato bene.