tartufi e patate

houelIeri sera Chiara mi ha chiesto un libro. Aveva finito Limonov e voleva cominciare un nuovo romanzo. Non avendo nulla di nuovo da darle se non saggi, che lei non ama, l’ho indirizzata su Houellebecq, che sapevo piacerle, e la scelta è caduta su L’Estensione del dominio della lotta, l’unica sua opera che le mancava. Io l’avevo letto diversi anni fa, dopo Le Particelle elementari, pur essendo uscito prima in Francia. Lo recensii pure da qualche parte, ma i miei ricordi erano abbastanza opachi. Giusto la trama essenziale e lo stile. Stamattina me lo ha rinverdito. Le stava piacendo e me ne ha letto qualche brano. Mentre ascoltavo alcuni passaggi ripensavo alle discussioni letterarie che avevo seguito in questi anni. Come un articolo di Francesco Pacifico uscito di recente su Orwell a proposito di letteratura di qualità e di intrattenimento, che innescò un piccolo dibattito in rete e sui giornali. O tipo un hashtag di twitter, #paroleorrende, lanciato dal mio editor. Nel primo caso Pacifico individuava il discrimine fra le due categorie nello stile: sciatto quello della narrativa commerciale; ricercato invece quello della vera letteratura. Più o meno lo stesso discorso vale per il giochino di twitter, che resta un esercizio senza valenze prescrittive, ma che è sintomatico di un’attenzione al linguaggio molto diffusa fra gli addetti ai lavori, il cui compito è essenzialmente quello di selezionare la gran messe di inediti che aspirano alla pubblicazione. Questo giochino poi ha figliato, tanto che su facebook è apparsa la variante sulle espressioni automatiche, quelle in cui si associa in modo meccanico un sostantivo e un aggettivo.

A me questo atteggiamento non convince. Lo trovo scontato, ben più di quanto lo siano le parole o le espressioni condannabili per questo motivo. E la dimostrazione è proprio Houellebecq, la sua scrittura, estremamente piatta e semplice. Non sto dicendo che quello sia lo stile migliore. Non sarei neppure credibile. Il mio romanzo è stato criticato da alcuni proprio per il suo linguaggio forbito, per l’eccesso di parole ricercate che sono parse uno sfoggio di cultura. Sto dicendo che lo stile è la nostra voce, l’impronta di ciò che si è su ciò che si fa, e che ciascuno ha il suo modo di esprimersi, il suo linguaggio. A volte ricco ed esuberante, come quello di Gadda, a volte secco e violento, come l’argot di Céline, a volte paranoico e ossessivo, come le ripetizioni di Bernhard e l’anacoluto di Nori, e altre volte prosaico e dimesso, come quello di Carver o di Houellebecq. Chi si appella a Queneau non capisce che un conto è padroneggiare diversi registri espressivi, un altro usarli a vanvera o per épater il lettore. La mia impressione è che un malinteso Gadda ha indirizzato la nostra narrativa verso delle sterili secche linguistiche, che solo agli occhi di uno sprovveduto sono sinonimo di raffinatezza.

Avevo già fatto il paragone col gioco di società Taboo, ora provo a esplicitarlo. In questo gioco si pesca una carta con scritta una parola e, senza mostrarla al proprio compagno di squadra, bisogna suggerirgliela evitando di dire i cinque sinonimi più comuni. Ecco, la nuova narrativa italiana, quella insegnata nelle scuole di scrittura creativa, incentivata da parecchi editor, premiata e recensita sui giornali, e che però già a Chiasso svapora all’istante, spesso esibisce lo stile Taboo, non solo con scelte lessicali eccentriche, ma anche con un eccesso di metafore ingegnose. Ricordo il brillante l’esordio di Viola Di Grado, salutato a ragione dalla critica con toni entusiasti (Giovanni Pacchiano sul Domenicale del Sole 24 Ore disse “Se c’è giustizia a questo mondo farà piazza pulita dei premi“, e difatti vinse il Campiello Opera Prima), che rimarcavano però tutti la pirotecnia verbale, l’ampio spettro lessicale, lo stile sorprendente, più che la struttura del racconto o la caratterizzazione dei personaggi (come Camelia, sua madre, Wen), appoggiandosi a metafore tipo “le chiome degli alberi che sembravano appena uscite dal parrucchiere”, o “a Leeds tutto ciò che non è inverno è una band di apertura che si sgola due minuti e poi muore”.

Sono convinto che ci sia un nesso fra questo tipo di scrittura e il suo provincialismo, oltre al sostanziale disinteresse che suscita nel lettore medio italiano. Rifugiarsi nel comodo alibi del pubblico pigro e della qualità che non vende non fa che protrarre l’errore. L’esordio di Houellebecq ebbe una tiratura altissima, fu tradotto in tutto il mondo, e oggi gran parte della critica considera il suo autore un classico contemporaneo e gli ha assegnato i riconoscimenti più prestigiosi come il Goncourt. Tuttavia nelle sue pagine quasi non trova cittadinanza l’imperativo “show don’t tell“. Sono infarcite di ciò che da noi è considerato blasfemo: una voice off molto presente, frequenti annotazioni saggistiche, pochi dialoghi, una lingua piana e quotidiana. Ma si esprime così perché le sue storie lo esigono, i suoi libri sono redatti come un referto autoptico, quello di un’autopsia morale, l’autopsia del desiderio. Un critico di peso – di quelli con cattedra all’università, che leggono solo conterranei, curano collane editoriali, presidiano giurie di premi e terze pagine – col quale mi sono scontrato spesso discutendo di letteratura, quando facevo il nome di Houellebecq replicava seccato: “Houellebecq non è nessuno”. Sì, per chi non sa distinguere un tartufo da una patata (con tutto che io fra un risotto al tartufo e delle buone patate al forno preferisco le seconde).

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10 Risposte to “tartufi e patate”

  1. luigi weber Says:

    Bello, Sergio! Sono d’accordissimo con te. Il feticcio del modello gaddiano, per lo più malinterpretato, orecchiato, scimmiottato alla meno peggio, da epigoni assai meno talentuosi e nevrotici di lui (ché la nevrosi era parte integrante di quella scrittura; pensa anche a Manganelli o a Mari, tra i pochi che l’hanno saputa ri-parlare, ri-scrivere come fosse la loro voce, anzi perché ERA la loro voce, e non una maldestra imitazione), rende la narrativa italiana cosiddetta “alta” terribilmente noiosa e morta, mentre produce, per converso, frotte di scrittori mediocri che invece puntano verso il semplice e il banale – o ci sguazzano – anche qui non per scelta intima e necessaria, ma perché non sanno fare di meglio. E in più il mercato li premia. Pensavo spesso, quando leggevo i grandi americani contemporanei (Roth, De Lillo, Pynchon, DFW, persino Littell), che libri così da noi gli editori non li avrebbero mai accettati, tuttavia la loro difficoltà non era mai un birignao di linguaioli, un tour-de-force da virtuosi senza idee; appunto, come dici benissimo tu, “un conto è padroneggiare diversi registri espressivi, un altro usarli a vanvera”. La loro difficoltà era frutto di un pensiero e di uno sguardo complesso sulla realtà. All’altro capo della questione, leggo Bolaño, e penso che uno scrittore così meravigliosamente “semplice”, noi non ce l’abbiamo – nessuno, in effetti, ce l’ha, temo – ma anche qui i nostri autori ed editori non lo possiedono, e forse nemmeno lo cercano, il segreto di una scrittura come la sua. Perché lui sembra possedere il generatore delle infinite storie del mondo, e il talento di scivolare da una nell’altra senza fermarsi mai, né mostrare mai il fiatone. I nostri scrittori, per lo più, è molto se ne hanno una, di storia.

  2. stefano gallerani Says:

    Il romanzo, il niente
    Su Michel Houllebecq e il nichilismo

    di Philippe Forest

    Traduzione di Stefano Gallerani

    La storia del “nichilismo” è stata scritta mille volte. Si potrebbe farla cominciare con Sofocle o con Euripide, con Socrate o Cartesio, con Turgenev o Dostoievskij. Etimologicamente, il nichilismo è l’esperienza del niente. E come tale si situa sull’orizzonte tragico di ciascuna esistenza. Nessuna corrente di pensiero, nessun secolo e nessuna civiltà possono reclamarne l’esclusiva paternità o dichiararsene miracolosamente preservati. Certamente lo si può ricondurre, in Occidente, alla controversa «morte di Dio» annunciata da Zarathustra o nella Gaia Scienza, e vedervi perciò l’essenza stessa del modermo, ma nulla impedisce di identificarlo con la storia stessa della metafisica, della tecnica, della sparizione dell’essere. La coerenza del concetto soffre di questa infinita plasticità di senso che gli consente di accogliere le interpretazioni più contraddittorie. Nel dedalo della sua opera inafferrabile, Nietzsche distingue almeno tre forme di nichilismo (passivo, attivo, estatico). Bisogna attendere Heidegger per arrivare ad una definizione più sintetica ed operativa (la stessa a cui qui ci si riferirà). Nella celebre Lettera sull’umanismo si legge che il nichilismo è il non-pensiero del niente.

    Il niente in letteratura

    Quando si discute del nichilismo della letteratura attuale, ci si riferisce alla più debole delle forme che questo concetto assume. Si processa il pessimismo del romanzo francese, la sua condiscendenza alle forme più deleterie, quelle meno energiche della sensibilità. Sotto la strana bandiera del “deprimismo” e all’insegna di un eterno ed inguaribile “male del secolo”, si raccolgono gli scrittori i più diversi, alla sola condizione che nei loro libri sia ritratto il volto dolce ed inoffensivo della derelizione moderna. È la resa alla vita, la certezza di un inutile “a che pro?”, la preferenza accordata al non-essere, la sconfitta senza appello della volontà. Il niente non è più pensato, ma subito passivamente o sentimentalmente simulato nei racconti che speculano sulla miseria altrui per far girare la prospera industria del melodramma. Ad un livello ulteriore di riflessione, il nichilismo potrebbe essere definito come il deprezzamento dei valori superiori (“crisi del senso”, “assenza di riferimenti”, “età fatua”, per tradurlo nel gergo politico-giornalistico). Il romanzo attuale è allora stigmatizzato (o lodato) per la sua inumanità, per la sua influenza demoralizzatrice. Si può accusare (o si può elogiare) perché non produce significati utili per la collettività, ma spalanca una sorta di precipizio nel quale rischia di inabissarsi l’intera civiltà. Questo deprezzamento può essere interpretato sia come un deprecabile fenomeno spontaneo (nichilismo passivo) sia come un colpevole tentativo di distruzione premeditata (nichilismo attivo). Niente di strano, dunque, se la pantomima allestita da parecchi mesi sulla scena culturale francese s’accompagna ad un crescente ed enfatico ricorso al concetto di nichilismo. Preso a sé, il fenomeno è positivo perché restituisce al dibattito una certa profondità di pensiero: scegliendosi come oggetto apparente il niente (anche se in una forma naif ed incompiuta, ovvero mistificatrice e dannosa) il romanzo ripropone le domande troppo spesso trascurate che il trionfo delle forme più regressive dell’espressione letteraria finisce sempre più per occultare. Al giorno d’oggi, col pretesto di raccontare il mondo, l’esotismo del romanzo storico, il populismo del noir e il sentimentalismo del romanzo psicologico ci allontanano dal reale al punto da impedircene totalmente l’accesso e tutta la memoria critica della modernità si trova d’un colpo congedata. Dal surrealismo al nouveau roman e oltre, la scrittura avanguardistica s’è definita proprio attraverso l’opposizione alla tradizione balzachiana, ma, in piena arroganza ed in piena buona fede, oggi sono Pierre Loti e Eugene Sue i numi tutelari del mercato editoriale e, stando a quello che si vede, presto sarà difficile non far iniziare un libro senza che la marchesa esca di casa alle cinque. Sembra che tutto vada ripensato, ripreso, e bisogna instancabilmente spiegare che non c’è romanzo degno d’essere di questo nome che non si preoccupi di mettere in scena se stesso, perché non si tratta di riflettere un inesistente stato oggettivo della realtà, ma piuttosto di rispondere al richiamo inaudito del reale (cioè l’impossibile secondo Bataille), e questo presuppone per lo scrittore un confronto all’interno del linguaggio con l’irrimediabile, l’irrapresentabile, lì dove si gioca il senso stesso di ogni esistenza.

    Le particelle elementari

    Come si va ripetendo, il libro di Michel Houllebecq assume in questo contesto un valore di sintomo. Il successo de Le particelle elementari si spiega per l’abilità con cui l’autore, dietro paraventi moderni e alla moda, ricorre alle ricette più consumate del romanzo ottocentesco. Quanto alla reale (ma relativa) qualità del libro, essa risiede in quello che, a volte in modo acuto, si dice sull’angoscia di vivere. Ma questa visione del nulla (è questo il limite del progetto), invece di essere pensata ed elaborata, viene riproposta nello schema di una dimostrazione che ne smussa la punta, ne inverte il significato.
    I sostenitori del romanzo di Houllebecq attribuiscono tutte le critiche all’invidia, al risentimento, ad un sociologismo volgare che sopravvaluta la posta ideologia del testo e resta cieco al vero funzionamento della letteratura, alla singolarità dello stile, all’ambiguità fondamentale del senso. Ma oltre all’equivoco tanfo idealista di una simile posizione estetica e se è vero che un autore non è mai il semplice redattore dei discorsi che attribuisce ai suoi personaggi o di quelli che consegna alla stampa, sarebbe inverosimile per un’opera non rispondere del suo contenuto, soprattutto quando, come nel caso di Houllebecq, discende evidentemente dalla tradizione naturalista del romanzo a tesi (l’affresco sociale costruito su una concezione pseudo-scientifica dell’essere umano sulla cui base è svolta una dimostrazione filosofico-politica a misura totalizzante). In verità, non leggere Houllebecq significherà non prendere atto del significato chiaro e coerente del suo discorso.
    Le Particelle elementari si presentano come una glauca ruminazione pre-puberale eretta a grandiosa utopia post-sessuale. Difatti, secondo una traiettoria del tutto esemplare, lo stesso romanzo conduce i suoi personaggi alla puerile scoperta della realtà traumatizzante del desiderio (l’odio per la sessualità materna, l’umiliazione dei dormitori e dei cortili per la ricreazione, le frustrazioni dell’adolescenza, l’invecchiamento dei corpi, l’impotenza etc.) fino alla dissoluzione di quella stessa realtà nell’idillio di un’umanità sbarazzatasi grazie alla scienza del fardello della sua condizione (uno dei protagonisti partecipa alla scoperta di una forma di clonazione che libera la specie dalla necessità di riprodursi e allo stesso tempo gli assicura l’immortalità). L’esperienza della miseria sessuale sparisce grazie alla sperimentazione scientifica.
    Nel romanzo le donne sono ritratte come fondamentalmente colpevoli (su tutte la madre, che ha abbandonato i figli per l’amante) e, per un fenomeno tipico di compensazione, il femminino (presentato come l’avvenire dell’uomo, la sua parte migliore) è idealizzato ed incarnato nella figura della vecchia signora, libera dal peccato, ideale madonna (a dire: «sono tutte donnacce tranne la nonna»). Mentre le altre donne, poiché peccatrici, devono espiare: così la madre muore al termine di una scena da grand guignol completamente consumata e posseduta da un risentimento così puerile che diventa molesto per il lettore; una delle eroine finisce paralizzata dopo essersi fatta sodomizzare in un partouze e l’altra sviluppa un cancro all’utero per non avere figli. Da tali avvenimenti – che si devono tutti alla arbitraria sovranità dell’autore che li immagina – deriva un senso che la critica ha ben il diritto di portare alla luce senza per questo darsi alla caccia alle streghe o intentare alla letteratura un processo di tipo staliniano. La “morale” di tali scene, perfettamente orchestrate in una trama facile da leggere, è che il divorzio, la liberazione sessuale e l’aborto devono essere pagati, dalle donne, con la vita. Nascondendosi dietro la libertà di inventare, l’autore, come nelle forme più retrograde di letteratura moralizzatrice (siamo ben lontani dalla sospensione del giudizio che si ritiene caratterizzi il romanzo), trasforma i suoi personaggi in vittime di una provvidenza da cui non traspare che il proprio risentimento criminale. Quello che più stupisce è che a questa espressione affatto nuova di risentimento per il desiderio femminile, il corpo sociale applauda a piene mani. Quanto ai personaggi maschili, poi, il romanzo gli riserva un’apoteosi di tutt’altra natura: uno cade nella follia, l’altro sparisce, ma il loro doppio destino (messo in parallelo con quello dei fratelli Huxley) si redime grazie alla conquista di una sublimazione interdetta alle donne: grazie a loro l’umanità entrerà nell’era della felicità eterna.
    Lo sgomento affascinato davanti all’impossibilità del reale (da cui nasce ogni grande romanzo) svanisce in una visione redentrice (che discende dalla religiosità più triviale). Tutta la narrazione si incammina verso un punto di fuga edificante, verso il sogno di una comunità socialmente e sessualmente riconciliata che ha abolito tutte le sue differenze, un paradiso che somiglia, se non sbaglio, a quello promesso da tutti i ciarlatani del moderno spiritualismo. A ben vedere, il lettore più perspicace de Le particelle elementari, e del suo successo, resta senza dubbio Freud che con buon anticipo mette in guardia contro «il fango nero dell’occultismo» nel quale i nostri tempi sguazzano allegramente e a Ernest Jones confida: «Chiunque prometta all’umanità di liberarla dalle tentazioni del sesso sarà acclamato come un eroe – qualsiasi asineria spacci». E ci sono delle «asinerie» in Houllebecq che rendono commercialmente commestibile anche la verità più aspra che, per il momento, emerge dal suo libro. Il niente, infatti, non è ritratto che fino a quando non diventa troppo insopportabile per l’autore, che allora si rifugia nel rassicurante non pensiero del nichilista. Ma è proprio da questo punto insostenibile di piacere e di strazio (quello che Bataille chiama il Male) che nasce la vera letteratura.

    Una pantera di carta

    Houllebecq è diventato il maître- à- ne- pas- trop- penser di tutti coloro che, quando si avvicinano a tutta velocità alla metà del loro cammino (e qualche volta francamente l’hanno superata) si consolano l’un l’altro, illusi d’essere i giovani rappresentanti di una nuova generazione di conquistatori. La piccola profezia che ammannisce la stampa vede nel trionfo de Le particelle elementari l’avvento di una letteratura in sintonia con il niente del nostro presente. Questa è chiaramente la chiassosa posizione della rivista “Ligne de risque” (la rivista letteraria fondata nel 1997 dagli scrittori François Meyronnis, Yannick Haenel e Frédéric Badré, ndt) e dei suoi pastiche che rasentano il plagio.
    La qualità (relativa) del lavoro intellettuale e la serietà (assoluta) del loro tono produce, alla lettura, degli effetti ridicoli. Forti di un’opera inesistente che non esita per questo ad elevarsi alle altezze di Sade o Lautreamont, non trovando parole abbastanza sprezzanti per il milieu letterario ma non per questo trascurando di adularne premurosamente i membri, gli animatori della rivista lasciano intendere di ordire un complotto di proporzioni catastrofiche. Senza dubbio considerano la loro doppiezza un sottile stratagemma per sbaragliare il campo letterario, ma non si tratta altro che di dare l’illusione di esserci.
    Che questo tentativo abbia avuto l’eco che s’è detto e che sia riverberato all’interno di un movimento più vasto, in parte sostenuto dall’establishment giornalistico ed editoriale, merita una riflessione. Per gli animatori di “Ligne de risque”, il nuovo romanzo di Houllebecq deve essere promosso per motivi strategici, per la sua stessa capacità negativa, cioè, di attrarre l’intera letteratura francese verso un punto di tensione massima in cui “la situazione esploderà” (sic). Al nichilismo passivo del “deprimismo” attuale si sostituirà il nichilismo attivo (ancora una volta definito estatico) che si vuole erigere sulle macerie del precedente. Il gusto si arricchisce di un enfatica, retorica ed inoffensiva apocalissi letteraria che ha ora l’aspetto di una spettacolare azione di commando ora di un’invisibile manifestazione epifanica. Saint Georges e Saint Michel, i redattori di “Ligne de risque”, si sono scelti per emblema la pantera (di carta?) che spodesterà il leone nichilista (a meno che non scelga di domarlo). Ma le metafore animali non sono mai innocenti, e viene ancora da pensare a Georges Bataille, all’ inesorabile lucidità che mostra quando ironizza sul significato dell’aquila imperiale cara all’immaginario surrealista e nicciano: “il colmo dell’elevazione di spirito e di pensiero di Lamartine”, “il desiderio incosciente e patologico di essere violentemente abbattuti”.

    Quale senso ritrovato?

    Ora, il nichilismo – qualsiasi sembianza assuma – si caratterizza per la fede nella sua capacità di superarsi. Gli eroi de Le particelle elementari agognano la sovrumanità che gli assicurerà la scienza, sovrumanità che certi “giovani” intellettuali non dubitano di poter conquistare grazie alla virtù del loro inconstatabile genio. Ma (tornando alla definizione di Heidegger) il niente non può essere pensato in nessun caso. Non è enfaticamente evocato che per essere subito imbrigliato nella cornice pseudo-assertiva (ma in realtà denegatrice) di una malinconica utopia romanzesca o di marziali rodomontate filosofiche.
    Incapace di sostenere il pensiero del niente, è ovvio che il nichilismo attuale susciti negli individui un irresistibile desiderio di senso ritrovato che assume le forme più diverse e pericolose, da un ripiegamento suicida su vecchi valori religiosi (integralismo, settarismo, new age), fino alla chiamata alle armi dei ripristinati valori demiurgici (tutte varianti di quello che, a ragione, si può considerare un neo-fascismo). E tutto perché la posta in gioco è allo stesso modo politica, come da alcuni è stato già lucidamente rilevato. Diventa spaventoso dover ricordare come il progetto del nichilismo così eroicamente sostenuto, la speranza di una società mondata dalla sporcizia sessuale, tutta questa mitologia della riconquistata purezza, della sconfitta della corruzione non siano altro che gli elementi costitutivi dello stesso immaginario fascista. Ed è altresì terribile dover ancora riconoscere nel “deprimismo” di tutte le “generazioni perdute” il nutrimento del più infame dei progetti politici.
    Sebbene l’importanza del fenomeno non debba essere istericamente esagerata, qualcosa di strano (di offensivo, di fastidioso, di inquietante) sta accadendo sotto i nostri occhi. Sotto le spoglie di una fraseologia pseudo-rivoluzionaria (il “merchandise”, lo”Spettacolo”, la “Tecnica” etc.) e col pretesto di contestare il “pensiero unico” e il “politicamente corretto”, un po’ dappertutto si riprende un vecchio discorso dell’estrema destra intellettuale.
    Dietro formule alla moda, non è altro che il rigurgito barrèsiano della cultura francese che si dispiega. Ma Houllebecq è andato un po’ oltre i suoi sodali. Senza saperlo, con le Particelle elementari, ha già offerto la propria personale versione sessuale de Les Deracines (il romanzo di Maurice Barrès pubblicato nel 1897, ndt). Come quello del suo antesignano, anche il suo grosso romanzo post-naturalista denuncia il disastro di una modernità che ha strappato l’individuo dal rassicurante grembo materno (la famiglia, la tradizione, cioè la terra e il sangue) per gettarlo prematuramente in un universo ostile. Il suo libro s’è nutrito di August Comte piuttosto che di Taine o di Renan, ma si fonda sugli stessi postulati scientisti, sulla stessa visione determinista e “biologizzante” dell’uomo. Sul suo orizzonte brilla la stessa luce ambigua che illumina una società perfetta, una società in cui la nozione di “individuo” non esisterà se non nelle forme di un pregiudizio destinato scomparire in seno ad una concezione fusionale e mistica del corpo sociale. Quanto agli scrittori (quelli che hanno scelto come proprio maestro Houllebecq), loro stanno ancora pubblicando artigianalmente chiazze di inchiostro. Sotto lo sguardo dei barbari, si intrattengono sulla decadenza del loro tempo, coltivano estaticamente il gusto aristocratico delle lettere e si meravigliano dell’incomparabile singolarità del loro Male.
    Oggigiorno trionfa l’ottocentismo (naturalismo, populismo, nichilismo). In un mirabile saggio (Le 19e siècle à travers les âges) a cui non si può che rimandare, Philippe Muray ne ha svelato la natura. Socialismo ed occultismo, sotterraneamente legati tra loro, costituiscono la base di quest’ideologia e, sullo sfondo del tempo storico, dipingono un’umanità finalmente riconciliata con se stessa. La caratteristica essenziale dell’ottocentismo consiste in un “voler guarire” che spingerà sempre più il nostro secolo verso le diverse forme dell’utopia totalitaria. È lo stesso “voler guarire” che oggi si manifesta in tutti gli pseudo-tentativi di superare il nichilismo. Ma dal male, come dal niente, l’uomo non può guarire. Finché penserà di sconfiggerlo, ne sarà vittima e preda. In questo modo la letteratura resta sorda ai richiami del negativo che ne costituiscono l’essenza e si fa incantare dalle false certezze di cui la storia sarà libera di fare l’uso più barbaro.
    In una forma abbastanza corrotta sentimentalmente e ideologicamente recuperabile, il nuovo nichilismo (questo il suo merito ed il suo limite) reintroduce nel discorso culturale la questione del nulla (la stessa che, con meno successo mediatico e migliori risultati estetici, le vere opere letterarie non possono non sollevare).
    Intervenire nel dibattito letterario non si giustifica che a questa condizione: ricordare che il romanzo non è, a conti fatti, il brillante riscatto della miseria umana, ma porta ad un confronto ancora più vertiginoso col Male; non ha niente a che vedere né con la volontà di potenza (giocare ai soldatini di carta e vagheggiare imprese napoleoniche) né con la sottomissione alla potenza e alla volontà altrui (per farsi cronista della moda, delle sue tendenze). Ma presuppone, sulla pagina, un’effettiva riflessione sul nulla che consenta di stimolare continuamente l’esperienza ad un tempo tragica e comica della verità. O ancora, per usare un linguaggio non così nichilisticamente connotato: che permetta di rispondere al richiamo inascoltato che l’impossibile reale continua a lanciare ad ognuno di noi.

  3. LM Says:

    In Houellebecq ci vedo anche un po’ di paraculaggine commerciale (ma non gliela rimprovero). Per il resto sono sostanzialmente d’accordo con il contenuto dell’articolo. Solo una nota a margine: penso che Houellebecq (e più ancora Bolaño) avrebbe scritto il nome del critico di peso che non distingue patate da tartufi, perché questo tipo di presa di posizione lo esige…

  4. monicavannucchi Says:

    Ciao sergio, buon anno! inutile dirti che anche a me piacciono più i tartufi, ma c’è una ricetta, il “tortino di patate con tartufi”, che forse posterò presto e mi sa piacerebbe anche a te :-). un abbraccio, m.

  5. per sbaglio Says:

    malinteso Gadda, no malinteso gaddiano.

  6. stefano gallerani Says:

    in effetti sì, chi cazz’è ‘sto critico di peso? nomi nomi nomi

  7. srmzgts Says:

    H ha stile semplice, vero, ma privo di cliché. Il problema del “generone”, come lo chiama Francesco, è imho soprattutto l’uso di lemmi, immagini, metafore, accostamenti, frasi trite (oltre che poco ricercate) e incapaci per questo di suscitare alcunché.

  8. sergiogarufi Says:

    caro vanni, io ho l’impressione che le metafore trite del c.d. generone siano il contraltare delle metafore ingegnose della narrativa taboo. presente “verso occidente l’impero dirige il suo corso” di dfw, in particolare la talentosa allieva del corso di scrittura creativa che viene redarguita dal suo insegnante perché il suo stile è “guarda mamma, senza mani!”? ecco, quello intendevo, facendo un carotaggio simile a quello fatto da pacifico (pag.50 di 8 romanzi “letterari”).

  9. gianni biondillo Says:

    Garufi rules!

  10. BileOnAir Says:

    Avevo letto Le particelle elementari cinque anni fa. Mi piacque molto. Poi lessi Piattaforma, più scontato ma affascinante. Comprai quello sulla felicità (non ricordo il titolo esatto), e ci rimasi malissimo, era proprio brutto.
    Tuttavia oggi rileggo Le particelle elementari, e lo trovo di un’esattezza spaventosa. Eguagliabile, non superabile.
    Le fitte ci sono un po’ ovunque. C’è parecchia intelligenza. Troppe righe da sottolineare. E un sottile anelito al pianto quando l’unica e ultima salvezza di Bruno si butta dalle scale.
    Credo che essere onesto e brutalmente realista verso il lettore sia un preciso dovere morale di chi voglia dirsi Scrittore.
    Certo, forse per Houellebecq vale il discorso che Bukowski fece di Camus: “Parlava di dolore e umana sofferenza con un linguaggio così pulito, come se niente potesse intaccarne lo stile. Camus scriveva come uno che ha appena mangiato una bella bistecca, con contorno di insalata e patatine fritte, innaffiato da un buon vino francese.”
    Ecco, forse la pecca di Houellebecq è quella di gridare senza bruciare. O meglio: potrebbe dare quell’idea lì (mentre lo stile di Céline era coerente al suo profilo esistenziale). E’ un rischio, quando in una riga immagini un ragazzino costretto a mangiare pezzetti di merda dallo scopolino del cesso, e in quella successiva discetti di Bohr e Heisenberg.
    Ad ogni modo la verità è questa, a prescindere da Houellebecq, sulla buona e cattiva letteratura: quando ancora importava di respirare e parlare di letteratura, la critica agiva da stimolo rispetto a pochi grandi autori, gli unici ad essere considerati; oggi, al contrario, tromboni irricevibili come Pietro Citati passano il loro tempo a rimpiangere l’Età dell’Oro spalando merda sulla contemporaneità che NON leggono; arrivando a dire che “non leggere è preferibile rispetto alla lettura di Faletti e Coelho” come se la letteratura contemporanea fosse questa.
    Quando la critica, il cui compito principale dovrebbe essere promuovere e incentivare la ricerca intellettuale e letteraria, distingue non tra buono/cattivo contemporaneo, ma tra buono = antico VS cattivo = contemporaneo, per la letteratura non c’è praticamente scampo.
    Noi siamo da trent’anni in mano a questa critica penosa, disonesta e servile. E da trent’anni la letteratura agonizza.
    Ecco perché, quando leggo i pochi scrittori lanciati dai mass-media per motivi oscuri o fortunate coincidenze, come quella di Houellebecq, non posso che dire Grazie, ed esprimere tutta la mia disistima per tutti quei professori universitari che affollano aule ricolme di poveri ignorantelli pecorecci, e sono capaci solo di bollare negativamente, dall’alto della loro stupida sapienza nozionistica priva di talento, quel poco splendore che ‘sta realtà terrificante ha la bontà di lasciarci.

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