Nei mesi di luglio e agosto del 1977 io e la mia famiglia facemmo un lungo viaggio in Spagna. Partimmo con una Fiat 131 familiare bianca carica di valigie e il cane, e la girammo in lungo e in largo. Mia madre voleva che i suoi figli conoscessero bene la sua patria, e non ci sarebbe stata una seconda occasione per farlo tutti assieme. Mio fratello Dave era appena diventato maggiorenne, e dopo quell’estate avrebbe trascorso le vacanze per conto proprio. Spesso mi è capitato di ripensare a quella vacanza, e di considerarla funesta e sbagliata, soprattutto perché perdemmo il cane a Barcellona, Sansone, un bastardino nero al quale ero molto affezionato. Ma la verità è che pure dopo la scomparsa di Sansone, quando superammo il lutto della sua perdita, noi fratelli eravamo troppo piccoli per apprezzare un viaggio simile. Io 14 anni, appena finite le medie, Mario 12, mia sorella 9; quanto poteva restarci, come ricordi, di quel mare di cose viste? Quanto potremmo aver capito, di tutti quei posti eccezionali?
Forse solo oggi, a distanza di quarant’anni, riesco a mettere a fuoco certi dettagli, a connetterli insieme, a dargli un senso. Per tanto tempo l’evento più raccontato e descritto, fra noi o con gli amici, fu la partecipazione a San Fermín, il 7 luglio a Pamplona, la celebre fiesta di Hemingway con le corse dei tori per strada, la sangria che scorreva ininterrottamente, una gioventù cosmopolita e ubriaca che si mischiava ai baschi ed esibiva il proprio coraggio o la propria incoscienza.
Però ora credo che il vero evento eccezionale sia stato un altro, tant’è che non si può ripetere, e fu la visita alle grotte di Altamira, forse la più forte emozione estetica della mia vita. Non si può ripetere perché poco dopo le hanno chiuse, quando si sono accorti che la presenza umana lì dentro alterava il fragile equilibrio climatico e microbiologico che preservava quelle meravigliose e delicate pitture rupestri.
Altamira la conoscono tutti, anche chi non c’è mai stato, talmente tante volte sono state trasmesse in tv le immagini dei suoi interni. Ricordo gli spazi grandiosi, la maestà dei suoi bisonti, il rosso e l’ocra dominanti, e poi una mano, nella sala dei policromi, l’unica traccia umana in tutte quelle pitture, una specie di firma. Oggi so che i nostri lontani progenitori lasciarono il calco della propria mano in tante grotte preistoriche ai quattro angoli del mondo, dalla Patagonia all’Australia e all’Europa. Erano poco più che degli ominidi, non conoscevano il modo di costruirsi un rifugio, foss’anche di sterco e paglia, tant’è che abitavano in cavità naturali. Non conoscevano il modo di coltivare un terreno, tant’è che erano semplici cacciatori-raccoglitori. E men che meno conoscevano una lingua con la quale comunicare, o una scrittura, però sentivano il bisogno di disegnare il mondo intorno a loro e di lasciare un segno del proprio passaggio.
I motivi possono essere i più diversi: riti sciamanici propiziatori, racconti di caccia illustrati per i più giovani, le congetture si sprecano, ma ciò che conta è che all’alba dell’uomo e delle immagini c’erano le impronte (e le stesse impronte le ritroviamo anche al tramonto delle immagini, appunto sul Sunset boulevard). Il marchio di un corpo premuto su una superficie è dunque la radice antropologica di ogni arte, perché il calco, dalle impronte del Paleolitico fino alle maschere mortuarie degli antichi egizi, rappresenta un lascito rituale e al contempo un desiderio di permanenza. Alcuni di questi calchi, come la mano rossa di Altamira, sono “impressivi”, realizzati con la tecnica delle impronte digitali, ma molti altri (vedi la Cueva de las manos in Argentina) sono dipinti “in negativo”, fatti cioè non poggiando la mano colorata sulla parete, bensì spruzzandogli il colore intorno e poi togliendola, alludendo in questo modo a un’assenza, a un trapasso, come a dire “sappi che io ero qui”, che in fondo è l’eterno messaggio di chiunque faccia arte.