Archive for settembre 2016

Vuoti

settembre 30, 2016

milo

Secondo Marcel Proust “la cosa più bella dell’Educazione sentimentale non è una frase, ma uno spazio bianco”. Lo si trova alla fine del quinto capitolo della terza parte, dopo che Frédéric, il protagonista del capolavoro di Flaubert, riconosce il gendarme che ha appena ucciso un insorto. Difatti, quando la narrazione riprende sono passati anni e la storia di Frédéric ha macinato eventi che vengono solo accennati dall’autore (“viaggiò”, “ebbe altri amori” ecc). Quell’ellissi giunge dunque al culmine di una tensione emotiva (il protagonista assiste a un omicidio), e prepara la resa dei conti finale (l’ultimo incontro col grande amore, madame Arnoux). Ma di spazi bianchi – intesi come vuoti, atti mancati, non detti, reticenze e omissioni che il lettore è chiamato a colmare – l’Educazione sentimentale è piena, e io trovo altrettanto potente ed evocativo quello della chiusa, quando Frédéric e l’amico Deslauriers fanno una specie di bilancio della propria vita. In quel frangente, rievocando la visita da ragazzi a un bordello, entrambi convengono che, pur essendo andati in bianco, quella fu la cosa migliore che gli fosse mai capitata. Nell’architettura narrativa del romanzo, quei due vuoti svolgono funzioni molto diverse. L’ellissi del quinto capitolo è una pausa, una camera di decompressione, come il patio coperto della Frick Collection di New York, mentre l’atto sessuale mancato è un vuoto portante, un’assenza che regge tutto il racconto, come il porticato di Palazzo Ducale a Venezia sostiene la mole compatta sovrastante.

La senza pari

settembre 29, 2016

simo

Aprile è il mese più crudele, perché si portò via Simonetta Cattaneo. Aveva solo ventitré anni quando morì di tisi, eppure s’era già guadagnata l’immortalità. Non aveva fatto molto, in verità, per meritarsela, tranne l’essere considerata dai suoi contemporanei una specie di Miss Universo e l’aver prestato il volto alla Venere del Botticelli. Nata nobile nel 1453 a Fezzano, in provincia di La Spezia, si sposò a 16 anni con un cugino di Amerigo Vespucci e si trasferì col marito a Firenze quando salì al potere Lorenzo il Magnifico. Fu proprio quest’ultimo a darle il soprannome con cui passò alla storia: “la senza pari”. Quel motto in francese infatti comparve su un vessillo che Lorenzo ordinò a Botticelli, dove Simonetta era ritratta come la dea Pallade. Con quello stendardo Giuliano de’ Medici, il fratello di Lorenzo, vinse la giostra del 29 gennaio 1475 e a lei dedicò la vittoria. Sui due circolarono molti pettegolezzi, ma il significato di quell’emblema così come lo descrisse il Poliziano era chiaro: il loro fu solo un casto amore neoplatonico, essendo lei maritata. Anzi, per certi versi il trio era perfettamente coerente, dato che una relazione platonica non obbedisce alla logica aristotelica, e dunque i terzi sono ammessi. Ma prima dell’idealizzazione postuma, la Marilyn del Rinascimento non ebbe un destino così invidiabile. Come altre grandi icone di bellezza, Simonetta in fondo fu una donna sola, che non coronò il suo amore per Giuliano, si sposò per procura e morì giovane. Il mito venne dopo, come un risarcimento pietoso.

Come si seducono le donne

settembre 28, 2016

vene

La tradizione vuole che Filippo Tommaso Marinetti e Gabriele D’Annunzio si detestassero reciprocamente, tant’è che del loro rapporto oggi restano soprattutto i brillanti insulti che ognuno riservava all’altro. In privato, D’Annunzio definì Marinetti “una nullità tonante”, “un cretino fosforescente”, e Marinetti ricambiò considerando il Vate un noioso passatista, la “Montecarlo della letteratura”, ma a denti stretti, in pubblico, si scambiarono sempre grandi attestati di stima e perfino doni. Sulla guerra e sulle donne però la pensavano allo stesso modo: entrambi eroici interventisti e impenitenti tombeur de femmes, vissero ogni rapporto sessuale come una “conquista” esaltante e scrissero testi sulla guerra dall’inequivocabile sapore di sperma (come osservò D’Annunzio nel suo Libro segreto). Ma è con Come si seducono le donne, l’opera di maggior successo di Marinetti, ristampata poco dopo la pubblicazione, che le affinità fra i due emergono con maggior evidenza. In questo divertente manualetto, che ottenne anche l’approvazione della Duchessa d’Aosta («C’est le livre d’un compétent»), dettato oralmente dall’autore a un commilitone durante una pausa della Grande Guerra, Marinetti equipara la dialettica amorosa alle manovre belliche (sulla scia del Petrarca, che diceva “duro campo di battaglia il letto“). E a un certo punto, quasi divinando la residenza del Vittoriale e i suoi arredi damascati, raccomanda al lettore: “mai su un divano a tinta unita!”, da cui si ricava la ragione eminentemente tessile del celebre motto d’annunziano memento audere semper.

metamorfosi

settembre 27, 2016

ka

Com’è cambiata la Praga di Kafka, sembra una città in forma di biografia. Neanche un secolo dopo la morte dello scrittore, in ogni angolo della capitale ceca riecheggia il suo nome e campeggia il suo volto malinconico, icona della bellezza e della purezza dell’insuccesso, a partire dalla sua casa natale, che oggi ospita il caffè Kafka, col suo ritratto come insegna. Ma per i fan più esigenti c’è la camera 214 dell’hotel Century, in cui si può soggiornare provando l’ebbrezza di stare fra le stesse mura in cui lui passò quattordici anni della sua vita, dato che quello era il suo ufficio all’Istituto di Assicurazioni. Chissà che penserebbe Franz, di questa stanza con la foto bromurica dei genitori appesa sopra il letto, e soprattutto di chi ci vuol dormire, tanto da prenotarla con largo anticipo? Uno scrittore la cui fama in vita varcò a stento i confini boemi, ora è diventato un’attrazione turistica internazionale e un pilastro del canone novecentesco occidentale. Ma il colmo è la libreria Kafka a Palazzo Kynski, dove un tempo c’era la merceria del padre. Hermann, l’omone che badava solo ai soldi e alla reputazione, che direbbe adesso nel vedere che tutto il mondo celebra l’opera del suo primogenito, quello che considerava un buono a nulla? Sembra una domanda retorica, ma la risposta non è così scontata. Lo dimostra il fatto che i c.d. cugini americani, i figli dello zio Philipp, emigrati negli USA e fra i pochi sopravvissuti dell’intera famiglia, rinnegarono ogni parentela col defunto e ormai celebre Franz.

l’esergo di un libro di Hrabal

settembre 26, 2016

hrabal

sono le avvertenze di una lavanderia.

 

Le stelle cadenti che nessuno guarda

settembre 24, 2016

bola

Bisogna immaginarsi Roberto Bolaño felice, nonostante la povertà, l’anonimato, la solitudine. Lui stesso ci invita a farlo, quando ricorda che da giovane visse “esposto alle intemperie e senza permesso di soggiorno come altri vivevano in un castello”. Eppure fu ignorato per tanto tempo, durante il suo esilio catalano, e fece i mestieri più umili, come il lavapiatti e il vigilante notturno del camping Estrella de mar a Castelldefels.                 Anch’io trascorrevo l’estate a Castelldefels in quegli anni, e infatti lì nacque mio fratello il 9 agosto 1965. Ci passavo le ferie coi miei, in una bella villa sul mare che in Italia non ci saremmo potuti permettere. La Spagna era molto conveniente, e agli occhi dei parenti catalani eravamo come gli zii d’America, ricchi e liberi, tanto che un giorno mio nonno José si commosse vedendo sul Corriere la pubblicità elettorale del PCI col simbolo della falce e martello in grande evidenza. Da loro una cosa del genere era impensabile, si andava in galera anche solo a disegnarlo su un quaderno. (more…)

7755 North Sheridan road, Chicago, IL

settembre 22, 2016

northsheridanroad7755

L’ultima casa di Vivian Maier, un monolocale al primo piano a pochi passi dal lago Michigan, in un’immagine che ricorda la stradina di Vermeer.

ipotesi su Vivian

settembre 22, 2016

mai

Ora siamo qui solo come ricordi per i nostri figli”, dice Matthew McConaughey nel film Interstellar. E Vivian Maier, l’Emily Dickinson della fotografia, per chi era al mondo lei? Non aveva figli, né fidanzato, né amici, e in più con la sua famiglia d’origine ruppe ogni rapporto molto presto. Gli unici che l’ebbero a cuore furono tre ragazzi di cui si prese cura come tata, i fratelli John, Lane e Matthew Gensburg, che si ricordarono di lei nel momento del bisogno dandole una casa, e anche dopo la sua morte, pubblicando un necrologio sul giornale e spargendo le sue ceneri al vento in una mattina di primavera. Ma il suo Max Brod, chi prestò ascolto al sussurro di quella vita inascoltata e impedì che di lei si perdesse ogni traccia, fu un totale estraneo, il giovane rigattiere John Maloof, che acquistò per pochi dollari uno scatolone di negativi a un’asta e ne scoprì il valore artistico dopo la sua morte. Perché Vivian apparteneva a quel tipo di persona, quelli che nascono postumi e vivono in condizioni di estrema solitudine, ma sono animati da una passione divorante alla quale sacrificano tutto e dalla quale non si aspettano niente. È come se venissero al mondo in differita, dentro una bolla che preclude ogni contatto con l’esterno, mantenendo sei gradi di separazione da chiunque altro; e forse è proprio questo che rende il loro sguardo così partecipe e compassionevole, seppur distaccato, l’amara consapevolezza di vivere in un altro tempo e di non poter colmare la distanza che li separa dall’oggetto delle loro attenzioni. Ciò che sopravvivrà alla fine è il frutto di quello sguardo, nel caso di Vivian le sue fotografie, che oggi girano da sole per il mondo come i bambini che aiutò a crescere.

Riparti dal via

settembre 21, 2016

hopp

Milano ogni volta che mi tocca di venire / mi prendi allo stomaco, mi fai morire. Ecco, più o meno mi succede la stessa cosa che diceva Lucio Dalla, anche se io vengo sempre volentieri nella mia Milano, e non perché mi tocca.

Di solito incontro gli amici in qualche ristorante a pranzo o a cena, e nel mezzo vado un po’ a zonzo, cerco i luoghi della mia giovinezza. Questo ad esempio è il portone di viale Vittorio Veneto 20, vicino a piazza Oberdan. Qui c’era l’Oppenheimer, un liceo scientifico privato. Io lo frequentai nell’anno scolastico 1977-78, e ricordo che giovedì 16 marzo, il giorno in cui rapirono Aldo Moro, ci mandarono tutti a casa prima della fine delle lezioni. Non ero sicuro del numero civico, per cui al 24 di quella via sono entrato e ho chiesto al portinaio dove potessi trovarlo. Lui mi ha detto di proseguire ancora un po’ e poi ha commentato: “Io ho fatto l’Oppenheimer“. In quel momento l’ho sentito quasi fraterno, non tanto per il fatto di aver frequentato lo stesso liceo, o perché sembrava un mio coetaneo, ma per la fine ingloriosa. L’Oppenheimer era una scuola privata seria, selettiva, che godeva di una buona reputazione, perché a Milano molti istituti privati, tipo lo Studium, non erano altro che dei diplomifici a pagamento. Costava un po’ ma aveva degli ottimi insegnanti, e chi usciva da lì in genere faceva l’università e si preparava a un futuro da classe dirigente, mentre io e quel portiere eravamo una macchia nel suo curriculum, due sfigati che avrebbero potuto far risparmiare i genitori andando in scuole pubbliche meno pretenziose. Eppure anche quel portiere stava meglio di me. (more…)

l’effetto di realtà

settembre 20, 2016

cristo-morto-mantegna

Quando, in un romanzo, ci si ispira a fatti autobiografici, capita spesso che i diretti interessati, leggendolo, non si riconoscano, e giudichino falsa e di parte quella ricostruzione. A volte è solo questione di prospettive diverse, di versioni personali dello stesso episodio, perché ognuno lo vive e vede a modo suo, ma altre volte quello scarto può essere ricercato appositamente dall’autore. Per ottenere un effetto di realtà, cioè per rendere più credibile la storia, può essere necessario correggerla in alcuni punti, sottoporre a una torsione gli eventi narrati. Se Mantegna dipinse il Cristo morto con un modello di fronte (ma anche se lo fece a memoria), sono certo che modificò apposta la posizione dei polsi e del viso. Reclinare il viso appoggiandolo al cuscino, sollevare i polsi a quel modo, coprirlo in parte con un sudario umido illuminato obliquamente che forma delle pieghe orizzontali e parallele come piani secanti, erano tutte scelte compositive che avevano un solo obiettivo: graduare la penetrazione in profondità, rallentare la fuga prospettica, l’infilata che altrimenti avrebbe compresso il corpo fino a farlo sembrare un nano se fosse stato più naturalmente disteso.