Archive for luglio 2017

il filo rosso di Grunewald

luglio 21, 2017

IMG-20170720-WA0001In tutti gli autori di lingua tedesca che amo c’è Grunewald.

Paul Celan andò a vedersi l’altare di Colmar nella pasqua del 1970, poco prima di uccidersi, e restò commosso e impressionato dalla vista di quel Cristo che stilla resina.

Elias Canetti da giovane aveva un poster di quel dipinto nella sua cameretta, come dice ne Il frutto del fuoco (Adelphi, pag.322), e lo tenne con sé anche più tardi, mentre scriveva l’Auto da fé, come fonte di ispirazione

Walter Benjamin nel suo studio parigino al 10 di rue Dombasle aveva una riproduzione del capolavoro di Grunewald, per procurarsi la quale era andato appositamente a Colmar.

Mi mancava giusto Kafka, e ora ho trovato anche lui. Magari non nel modo canonico che mi aspettavo, cioè con una citazione esplicita o una riproduzione del dipinto appesa nel suo studio, ma con una presenza più discreta, eppure altrettanto significativa. Grunewald nella sua vita è un indirizzo, un indirizzo decisivo, il suo penultimo a Berlino, quello dove si trovava la casetta nel verde in cui visse tre mesi fra il 1923 e il ’24 con Dora Diamant e che gli fu particolarmente cara, forse perché pur malato senza speranza lì fece una vita di coppia quasi normale. Da quella casa infatti usciva ogni giorno a passeggiare nel vicino parco Steglitz, e lì incontrò la bambina che aveva perso la bambola che gli ispirò quelle bellissime e famose lettere perdute. Beh, la casa di Berlino in cui Kafka visse felicemente con Dora si trovava in Grunewaldstrasse, e pur non esistendo più possiamo ugualmente ammirarla in una foto esposta nella piccola mostra sullo scrittore praghese allestita in questi giorni al Martin-Gropius-Bau di Berlino fino al 28 agosto, o altrimenti possiamo vederla nel bell’album fotografico di Klaus Wagenbach intitolato Franz Kafka. Bilder aus seinem Leben.

Lo so, dire che Grunewald è presente nella vita dei grandi autori tedeschi non sembra molto probante, sarebbe come dire che Caravaggio era ammirato da quattro o cinque grandi scrittori italiani del Novecento. Poi l’ultimo addirittura col semplice indirizzo, figuriamoci. Eppure chi mi legge sa la mia ossessione per le case dei grandi artisti, e sa che per me c’è sempre un legame fra un artista e il suo indirizzo di casa. Esiste anche per noi comuni mortali, quel legame, semmai il problema è scoprire qual è.

La mia idea è che per ognuno di noi esiste una casa che ci rappresenta, un indirizzo che ci appartiene come una seconda pelle. Io ho vissuto in venti case diverse fino ad oggi, ho fatto il conto, ma con una sola mi identificavo totalmente, ed era la casa monzese di via Giovanni Rajberti, un nome che all’inizio non mi disse niente ma in seguito scoprii essere un medico-scrittore autore del libro Prefazione alle mie opere future.

Il tassonomista Georges Perec abitò in vari appartamenti nella sua breve vita, ma quello veramente suo stava in rue Linneo, a Parigi.

Sempre a Parigi il rumeno Cioran, gran camminatore, visse in diversi posti, compreso alcune stanze d’albergo, ma la sua vera casa fu l’ultima, in rue de l’Odeon, perché quella fu la prima strada della ville lumiere a dotarsi di marciapiedi.

come sarebbe stato tutto diverso

luglio 17, 2017

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Si vivi vicissent qui morte vicerunt, diceva Cicerone. Come sarebbe stato tutto diverso, se nella vita avessero vinto coloro che hanno vinto nella morte. Anche per loro, intendo. Per Franz Kafka, Robert Walser, Walter Benjamin, Herman Melville… O forse no. Forse il genio è come il porco, buono solo da morto.

pedinamenti

luglio 13, 2017

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Oggi ho saputo che Vito Acconci è morto a New York poco più di due mesi fa. Aveva 77 anni. Ricordo che nel 1997 cercai invano casa sua, o meglio venni a sapere un indirizzo sulla sesta avenue all’angolo con la nona strada, vicino a una nota gastronomia italiana (allora si chiamava Balducci, oggi Citarella), ma sui citofoni vidi solo numeri e non trovai alcuna conferma. Acconci era un artista dalla creatività inesauribile, eclettico e sperimentatore, convinto che il mondo fosse fatto essenzialmente di relazioni, non di cose. E proprio sulle relazioni, sui rapporti con gli altri, sono incentrate le sue opere più famose e riuscite, i c.d. Following Piece.

acconci

Nell’epoca dei follower sedentari attaccati a uno schermo, sembra strano che un tempo qualcuno si prendesse la briga di uscire in strada per pedinare un estraneo in modo disinteressato, cioè senza essere il fan di una celebrity, un detective privato sulle orme di qualche marito infedele o un poliziotto che spia un criminale. Acconci negli anni 70 a New York faceva appunto questo, seguiva gli altri forse con la speranza di depistare sé stesso e la propria vita, che evidentemente non gli bastavano. Sceglieva a caso un passante – magari attratto da un paio di scarpe strane o da una smorfia curiosa – e gli andava dietro per la città il più a lungo possibile. Il pedinamento poteva consumarsi in una manciata di minuti, se lo sconosciuto saliva all’improvviso su un’automobile o varcava un portone, oppure durare ore, perché le sue performance artistiche cessavano solo quando il pedinato entrava in un luogo privato, come la sua casa o il suo ufficio, considerati inviolabili.

papà

Mio padre non era un appassionato di arte contemporanea, e con ogni probabilità non sapeva neppure chi fosse Vito Acconci, ma aveva parecchie cose in comune con lui. Non lo spingeva la stessa curiosità per le vite degli altri, quando annunciava a noi figli piccoli che quel giorno saremmo andati “all’avventura”, intendendo con ciò una gita in macchina senza una meta precisa, se non quella scelta da un’altra auto sconosciuta che improvvisamente ci mettevamo a seguire, però lo spirito da esploratore e la suspence erano identici.

Andare all’avventura divenne il passatempo preferito di noi fratelli, quello che ci faceva attendere con trepidazione il weekend come una caccia al tesoro di Salgari, trasformando le strade di Milano e dell’hinterland nei sentieri di un’isola esotica piena di insidie e imprevisti e con un traguardo finale avvolto in un mistero impenetrabile.

In qualche occasione scoprii dei posti incantati che da adulto sarebbero diventati i miei luoghi elettivi, una parte fondante del mio paesaggio interiore, ai quali torno spesso e dove porto i miei cari. Come la torre longobarda di Vezio, con la sua vista stereoscopica sui due rami del lago di Lecco, che incontrammo una domenica invernale seguendo una 500 che da Varenna s’inerpicò ansimando sui tornanti per fermarsi al cimiterino locale, e dalla quale scesero due gemelli anziani con un mazzo di fiori un po’ sorpresi nel vedere quella famigliola con la quale avevano condiviso tanta strada.

castello-di-vezio

Il giochino non durò a lungo. Troppi inciampi sul suo percorso, soprattutto per una famiglia numerosa con i figli piccoli. La nostra ultima avventura capitò a Pasqua del 1974, quando sulla scia di una due cavalli arrivammo in provincia di Siena e, non trovando posto in nessun albergo o pensione, fummo costretti a dormire in macchina tutti e sei stipati dentro una Giulia Alfa Romeo parcheggiata davanti a un mobilificio. Noi bambini eravamo entusiasti dell’imprevisto, non sentivamo neanche freddo. Passare la notte insieme sotto le stelle, restare svegli fino a tardi, ci sembrava una festa, ma mia madre, che non aveva mai amato quel gioco, la prese malissimo.

Dormimmo poco o niente. Al risveglio eravamo tutti anchilosati e Mario aveva i brividi e la fronte che scottava. Mamma s’infuriò con papà e gli diede dell’incosciente, perché con quattro figli piccoli solo un irresponsabile si comportava così, ma la verità è che lui di solito era più che premuroso, non lasciava mai scadere una bolletta e faceva il pieno di benzina appena la spia scendeva sotto la metà. Quelle avventure in macchina erano le piccole insubordinazioni di un uomo fondamentalmente prevedibile e abitudinario, il suo modo di concepire il mondo come qualcosa ancora da scoprire, qualcosa a cui si può andare incontro con fiducia, che presuppone una distanza, uno spostamento e una disponibilità. In un certo senso i nostri inseguimenti erano il simbolo di un’esperienza assoluta, qualcosa di organicamente isolato ed estrinseco al corso normale di una vita, e che tuttavia ne costituiva il nucleo interiore, la consumava, la concentrava. Forse anche lui voleva evadere, depistare se stesso, esperire altre possibilità, ma mamma era stanca di tutti quegli inconvenienti e non volle sentir ragioni, così lui finì per prometterle di non rifarlo mai più.

Questa foto in un ristorante, che non ricordo più quale né dove fu scattata, rende l’idea della tensione provocata da quei dissapori. Somiglia alla famiglia Bellelli di Degas, il quadro che il maestro francese dipinse come ringraziamento alla zia paterna per l’ospitalità che ricevette a Firenze, un vero e proprio gruppo di famiglia in un inferno.degasNella nostra foto c’è la stessa cappa pesante, la medesima tensione palpabile, soprattutto fra gli adulti. Papà e mamma sonos seduti a tavola vicini ma li separa un abisso d’incomprensione. Lui ha l’aria avvilita, lo sguardo basso, come di chi sa di averla fatta grossa, mentre mamma lo evita guardando ostentamente altrove con aria scocciata. Io e Davide sembriamo gli unici consapevoli del misfatto, mentre Mario ha un’espressione stralunata e Nuria, la più piccola e inconsapevole, civetta col fotografo.FB_IMG_1499967624131

Il ritorno in macchina fu innaturalmente silenzioso, ognuno assorto nei suoi pensieri guardando il nastro del paesaggio che scorreva fuori dal finestrino, come se quell’esperienza si potesse soltanto vivere, non dire, sebbene fosse il linguaggio stesso a custodirla come tale. Ricordo di essermi sentito terribilmente solo, come se in quel weekend fosse finita la mia infanzia, ma finita nel senso di spacciata. Oggi penso che quando la mia compagna si lamenta perché io non prenoterei mai nulla, biglietti del cinema, ristoranti e alberghi, o quando seguo le tracce dei miei fantasmi letterari a partire dalle loro abitazioni, in qualche modo sto testimoniando una passione che mi scorre nel sangue e che risale alle avventure di quei bei giorni sconsiderati.

l’ennesimo falso Borges

luglio 11, 2017

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Eccolo, l’ultimo falso borgesiano. Versi (versi?), no, scusate, parole di una bruttezza raccapricciante, che suscitano i commenti estasiati delle tisaniere sui social (“Mi ero dimenticata la frittata sul fuoco per leggere tutta questa verità. Con il tempo impariamo che niente torna indietro“; oppure “Bella. Tremendamente bella. Senza speranza. Il tempo passa e va, ma c’è anche un tempo interno alle volte è medicina , alle volte è rinascita”). Non ci vuole molto: l’anafora, una firma falsa, il tono malinconico, e il gioco è fatto.

Qui la si può gustare integralmente, sebbene con piccole varianti nel titolo e nel testo.

premi letterari e carceri

luglio 7, 2017

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A Lipari in vacanza sono andato per quindici estati consecutive, dal ’76 al 91, e dopo un po’ conoscevo parecchi dei suoi abitanti, come le sorelle proprietarie della discoteca più bella dell’isola, il Turmalin, situata sulla rocca a picco sul mare. Strinsi amicizia pure col buttafuori di quel locale, Franco o’ pazzo, un energumeno tutto tatuato quando i tatuaggi li portavano solo i carcerati. E infatti una notte dei primi anni Ottanta, al tavolino di un bar di Marina Corta, mi disse con fierezza di essere stato più volte in carcere, anzi in diversi penitenziari dellla penisola, e mi spiegò che c’erano grosse differenze fra una prigione e un’altra. Per esempio il fatto che in quelle del Nord Italia comandavano le guardie, mentre al Sud comandavano i detenuti. Ovviamente per detenuti intendeva i vertici, cioè i boss della malavita organizzata, che a suo dire erano serviti e riveriti dai secondini e potevano girare liberamente all’interno, disponendo di donne, cocaina, abiti firmati e cene ordinate nei migliori ristoranti. Tutto tranne uscire, insomma.

Anche i maggiori premi letterari italiani hanno un’impostazione simile, nel senso che al Nord, come il Campiello, comandano i giurati, e quindi il vincitore è imprevedibile, mentre più giù comandano gli editori (a partire dall’indicazione dei candidati al metodo di cooptazione dei giurati fino all’assegnazione del riconoscimento), come allo Strega, che forse a questo punto sarebbe il caso di chiamare Premio Mondadori, dato che tutto si decide a Segrate. In entrambi i casi, cioè sia che governino i giurati/guardie o i grandi editori/boss, il fine è quello di garantire l’ordine, e mi sembra che non ci si possa lamentare.

Va senza dire che questo è un parallelo, non un’equazione. Una cosa non è uguale all’altra, quindi gli editori non sono dei criminali o addirittura dei mafiosi, ci mancherebbe. Semplicemente a volte comandano dove non dovrebbero, e questo, se all’apparenza fa il loro interesse, in realtà alla lunga nuoce alla reputazione di tutto l’ambiente, quindi anche a loro.

 

Le cose sbagliate

luglio 5, 2017

rodari