
Oggi ho saputo che Vito Acconci è morto a New York poco più di due mesi fa. Aveva 77 anni. Ricordo che nel 1997 cercai invano casa sua, o meglio venni a sapere un indirizzo sulla sesta avenue all’angolo con la nona strada, vicino a una nota gastronomia italiana (allora si chiamava Balducci, oggi Citarella), ma sui citofoni vidi solo numeri e non trovai alcuna conferma. Acconci era un artista dalla creatività inesauribile, eclettico e sperimentatore, convinto che il mondo fosse fatto essenzialmente di relazioni, non di cose. E proprio sulle relazioni, sui rapporti con gli altri, sono incentrate le sue opere più famose e riuscite, i c.d. Following Piece.

Nell’epoca dei follower sedentari attaccati a uno schermo, sembra strano che un tempo qualcuno si prendesse la briga di uscire in strada per pedinare un estraneo in modo disinteressato, cioè senza essere il fan di una celebrity, un detective privato sulle orme di qualche marito infedele o un poliziotto che spia un criminale. Acconci negli anni 70 a New York faceva appunto questo, seguiva gli altri forse con la speranza di depistare sé stesso e la propria vita, che evidentemente non gli bastavano. Sceglieva a caso un passante – magari attratto da un paio di scarpe strane o da una smorfia curiosa – e gli andava dietro per la città il più a lungo possibile. Il pedinamento poteva consumarsi in una manciata di minuti, se lo sconosciuto saliva all’improvviso su un’automobile o varcava un portone, oppure durare ore, perché le sue performance artistiche cessavano solo quando il pedinato entrava in un luogo privato, come la sua casa o il suo ufficio, considerati inviolabili.

Mio padre non era un appassionato di arte contemporanea, e con ogni probabilità non sapeva neppure chi fosse Vito Acconci, ma aveva parecchie cose in comune con lui. Non lo spingeva la stessa curiosità per le vite degli altri, quando annunciava a noi figli piccoli che quel giorno saremmo andati “all’avventura”, intendendo con ciò una gita in macchina senza una meta precisa, se non quella scelta da un’altra auto sconosciuta che improvvisamente ci mettevamo a seguire, però lo spirito da esploratore e la suspence erano identici.
Andare all’avventura divenne il passatempo preferito di noi fratelli, quello che ci faceva attendere con trepidazione il weekend come una caccia al tesoro di Salgari, trasformando le strade di Milano e dell’hinterland nei sentieri di un’isola esotica piena di insidie e imprevisti e con un traguardo finale avvolto in un mistero impenetrabile.
In qualche occasione scoprii dei posti incantati che da adulto sarebbero diventati i miei luoghi elettivi, una parte fondante del mio paesaggio interiore, ai quali torno spesso e dove porto i miei cari. Come la torre longobarda di Vezio, con la sua vista stereoscopica sui due rami del lago di Lecco, che incontrammo una domenica invernale seguendo una 500 che da Varenna s’inerpicò ansimando sui tornanti per fermarsi al cimiterino locale, e dalla quale scesero due gemelli anziani con un mazzo di fiori un po’ sorpresi nel vedere quella famigliola con la quale avevano condiviso tanta strada.

Il giochino non durò a lungo. Troppi inciampi sul suo percorso, soprattutto per una famiglia numerosa con i figli piccoli. La nostra ultima avventura capitò a Pasqua del 1974, quando sulla scia di una due cavalli arrivammo in provincia di Siena e, non trovando posto in nessun albergo o pensione, fummo costretti a dormire in macchina tutti e sei stipati dentro una Giulia Alfa Romeo parcheggiata davanti a un mobilificio. Noi bambini eravamo entusiasti dell’imprevisto, non sentivamo neanche freddo. Passare la notte insieme sotto le stelle, restare svegli fino a tardi, ci sembrava una festa, ma mia madre, che non aveva mai amato quel gioco, la prese malissimo.
Dormimmo poco o niente. Al risveglio eravamo tutti anchilosati e Mario aveva i brividi e la fronte che scottava. Mamma s’infuriò con papà e gli diede dell’incosciente, perché con quattro figli piccoli solo un irresponsabile si comportava così, ma la verità è che lui di solito era più che premuroso, non lasciava mai scadere una bolletta e faceva il pieno di benzina appena la spia scendeva sotto la metà. Quelle avventure in macchina erano le piccole insubordinazioni di un uomo fondamentalmente prevedibile e abitudinario, il suo modo di concepire il mondo come qualcosa ancora da scoprire, qualcosa a cui si può andare incontro con fiducia, che presuppone una distanza, uno spostamento e una disponibilità. In un certo senso i nostri inseguimenti erano il simbolo di un’esperienza assoluta, qualcosa di organicamente isolato ed estrinseco al corso normale di una vita, e che tuttavia ne costituiva il nucleo interiore, la consumava, la concentrava. Forse anche lui voleva evadere, depistare se stesso, esperire altre possibilità, ma mamma era stanca di tutti quegli inconvenienti e non volle sentir ragioni, così lui finì per prometterle di non rifarlo mai più.
Questa foto in un ristorante, che non ricordo più quale né dove fu scattata, rende l’idea della tensione provocata da quei dissapori. Somiglia alla famiglia Bellelli di Degas, il quadro che il maestro francese dipinse come ringraziamento alla zia paterna per l’ospitalità che ricevette a Firenze, un vero e proprio gruppo di famiglia in un inferno.
Nella nostra foto c’è la stessa cappa pesante, la medesima tensione palpabile, soprattutto fra gli adulti. Papà e mamma sonos seduti a tavola vicini ma li separa un abisso d’incomprensione. Lui ha l’aria avvilita, lo sguardo basso, come di chi sa di averla fatta grossa, mentre mamma lo evita guardando ostentamente altrove con aria scocciata. Io e Davide sembriamo gli unici consapevoli del misfatto, mentre Mario ha un’espressione stralunata e Nuria, la più piccola e inconsapevole, civetta col fotografo.
Il ritorno in macchina fu innaturalmente silenzioso, ognuno assorto nei suoi pensieri guardando il nastro del paesaggio che scorreva fuori dal finestrino, come se quell’esperienza si potesse soltanto vivere, non dire, sebbene fosse il linguaggio stesso a custodirla come tale. Ricordo di essermi sentito terribilmente solo, come se in quel weekend fosse finita la mia infanzia, ma finita nel senso di spacciata. Oggi penso che quando la mia compagna si lamenta perché io non prenoterei mai nulla, biglietti del cinema, ristoranti e alberghi, o quando seguo le tracce dei miei fantasmi letterari a partire dalle loro abitazioni, in qualche modo sto testimoniando una passione che mi scorre nel sangue e che risale alle avventure di quei bei giorni sconsiderati.