
In questo palazzetto giallo abitai per quasi tre anni, dal primo gennaio 2000 a fine novembre 2002. Vivevo in un appartamentino di 50 mq situato al primo piano sopra la farmacia. L’edificio non disponeva di un’entrata propria, vi si accedeva dal portoncino del palazzo grigio sulla destra. Il suo maggior pregio era l’ampio soggiorno, ideale per ricevere amici e far festa, ma il resto della casa era minuscolo: un bagnetto con vasca-tinozza in cui si stava solo rannicchiati, un cucinotto indipendente seppur ridotto ai minimi termini, e una camera da letto essenziale ma con l’affaccio verso l’interno, quindi molto silenziosa. In più c’era un balconcino che dava sulla strada principale di Monza, via Vittorio Emanuele, nei pressi dell’area pedonale e del ponte romano. Il palazzetto risaliva al Seicento, e infatti, durante i lavori di ristrutturazione delle cantine, in un’intercapedine furono trovate delle lettere di credito coeve appartenute a un usuraio. Io e Nicole – la mia fidanzata olandese, la mia prima convivenza – a volte ci scherzavamo su, riferendoci alla tirchieria del padrone di casa, come se fosse una tara genetica trasmessasi attraverso i secoli e le generazioni dei proprietari di quelle mura.

A quel tempo io gestivo un negozio a 200 mt da casa, in via Carlo Porta, lo raggiungevo a piedi e l’auto la usavamo solo la sera o nei weekend, per vederci con gli amici di Milano. Nicole lavorava in uno studio di architettura in corso di porta Nuova, prendeva il treno diretto alla stazione Garibaldi e in pochi minuti era arrivata. I soldi per fortuna non ci mancavano, poi condividevamo tante passioni, dai libri alle mostre d’arte, e avevamo un sacco di progetti per il futuro, sembrava tutto così a portata di mano. Quando nel 2002 lasciammo quella casa in affitto per trasferirci in un trilocale di via Toti acquistato col mutuo, lo facemmo perché ci serviva una camera da letto in più, volevamo un figlio. Io ero alla mia prima convivenza e non avevo dubbi che sarebbe stata anche l’ultima, invece il nostro soggiorno nella nuova casa durò soltanto pochi mesi, e da tre che speravamo di diventare alla fine ci rimasi solo io. Ricordo che al rogito Nicole aveva detto che quello era un legame più forte del matrimonio, dato che il mutuo sarebbe durato 25 anni e noi stavamo per compierne 40, ma poi finì che s’innamorò di un altro e il nostro vincolo indissolubile si sciolse come neve al sole.
Non so chi abita ora in quell’appartamento di via Vittorio Emanuele, e non credo che ci rimetterò mai più piede. Il coraggio di chiedere a uno sconosciuto di farmi entrare lo trovo solo per le case degli artisti che amo, non per le mie. Però è un peccato che con le case ci si lasci sempre così, in modo brusco e definitivo: si riconsegnano le chiavi e via, ognuno per la propria strada senza neanche voltarsi, come con un’ex diventata insopportabile. Le case sono contenitori di storie, la nostra memoria più duratura e preziosa, forse anche per questo si chiamano “stabili” gli edifici che le ospitano. Di recente, leggendo Civiltà materiale, economia e capitalismo di Fernand Braudel, ho scoperto una bella consuetudine cinese che non conoscevo. Pare che questa usanza fosse ancora viva ai tempi in cui lo storico francese scrisse quel saggio (gli anni 70), e in sostanza consentiva all’ex proprietario di una casa di poter tornare a visitarla in qualunque momento volesse. Scommetto che in cinese è come per l’inglese e il tedesco, cioè che la parola “nostalgia” ha a che fare con la casa, come in “homesickness” (la malattia della casa) o in “heimweh” (il dolore per la casa).