Luisa, in L’impero dei segni, di Roland Barthes, edito da Einaudi. Luisa 1991, l’anno in cui è morto mio padre. Chi eri? Perché ora il tuo libro sta qui? Che fine hai fatto? Le macchie di caffè sulla costa sono tue? Luisa.

Luisa, in L’impero dei segni, di Roland Barthes, edito da Einaudi. Luisa 1991, l’anno in cui è morto mio padre. Chi eri? Perché ora il tuo libro sta qui? Che fine hai fatto? Le macchie di caffè sulla costa sono tue? Luisa.
Tempo fa avanzai la proposta di una legge elettorale che prevedeva un voto oppositivo basato sulla contrarietà, il cui oggetto della scelta era appunto l’avversario, e quindi indirizzato a ciò che non ci piace, un po’ sul modello del referendum abrogativo, e ora vedo che il reclutamento per una grande manifestazione della Lega a Roma avviene con la stessa logica, ossia facendo leva sulle assenze, schierandosi contro un nemico reso grottesco e caricaturale già dal ritratto fotografico.
Una volta io e Marco ci siamo dati appuntamento a pranzo al panino giusto, ma non ci siamo trovati perché io avevo capito che era il panino giusto di porta Venezia, mentre lui intendeva il panino giusto di Ticinese (o viceversa, non mi ricordo).
Una sera fredda come questa, proprio qui in via Ciovassino – sono passati tanti anni, ero un ragazzo – m’incantai a osservare Lalla Romano che usciva da un ristorante a piccoli passi incerti sulla rizzada, tenuta sottobraccio da un’amica. Sempre più spesso, ovunque mi trovi, le immagini del passato si mangiano all’improvviso quelle del presente, e mi lasciano smarrito e con lo sguardo perso, come chi non appartiene più al suo tempo, o non sa più nemmeno quale sia.
Com’è bella casa Testori a Novate Milanese. Il davanti è proprio da Novate: il precetto borromeiano di non ostentare diventa quasi ascetico, potrebbe essere la casa di un tappezziere brianzolo, anzi il suo laboratorio, poi entri e scopri il retroprospetto, la parte a cui accedono solo gli intimi, il giardino spettacolare, insospettabile, il vialetto sinuoso di ghiaia, l’architettura che osa rompere l’ortogonalità…
“Non ricordo quando fu ma certo a Roma, alla galleria Barberini, stavo analizzando un Andrea del Sarto, quello che si dice analizzare, ed ecco che mi sono accorto. Non chiedermi che te lo spieghi. Me ne sono accorto, ho visto chiaramente (e non tutto il quadro, solo un piccolo particolare, una figurina lungo un sentiero). Mi sono venute le lacrime agli occhi, ecco tutto”.
A pag. 499 di Rayuela c’è questo passo illuminante di Julio Cortázar, proprio nel senso dell’illuminazione, di una folgorazione istantanea, qualcosa che non è spiegabile né trasmissibile a parole, ma che all’improvviso ti fa vedere le cose chiaramente, arrivando addirittura a commuoverti, perché una vera illuminazione può sfociare solo nel silenzio o nel pianto. Julio racconta (per bocca del personaggio Etienne, uno degli amici del Club del Serpente) questa storia in modo un po’ criptico e laconico ma con riferimenti precisi: è sicuro che si trovasse a Roma, alla Galleria Barberini, e che il quadro a cui apparteneva quel dettaglio che lo colpì tanto, la figurina lungo il sentiero, fosse opera di Andrea del Sarto. Ora io ho controllato, prima in rete poi di persona, andando al museo, e i due dipinti di Andrea del Sarto della Barberini non hanno figurine sullo sfondo. Sono due soggetti religiosi (una sacra conversazione e una madonna) privi di comparse. Allora ho pensato che l’argentino si fosse sbagliato, in fondo l’ultima volta che era stato a Roma risaliva al ’52, con la fidanzata Aurora Bernardez, quando viveva in una stanza in affitto in via di Propaganda Fide 22, vicino a piazza di Spagna, mentre Rayuela è del ’63, e anche considerando che quel brano Cortázar l’abbia scritto prima del suo capolavoro, dato che la stesura di quel romanzo durò parecchio, io quasi due lustri in mezzo ce li vedo lo stesso. Si sarà confuso, avrà fatto un errore sul “pittore senza errori”, come Vasari chiamava Andrea del Sarto con ammirazione per le sue abilità tecniche ma anche con un pizzico di ironia per la freddezza dei risultati, per quelle composizioni così algide e poco transitive, che spesso restano sulla tela e non riescono a toccare emotivamente lo spettatore (secondo l’aretino per colpa della moglie di Andrea, di cui il pittore sarebbe stato succube al punto da fare uno sgarbo al re di Francia). Se così fosse, si potrebbe ipotizzare uno scambio con un’altro dipinto di Andrea, la Carità al Louvre, che lui doveva per forza aver visto, abitando a Parigi ed essendo un amante del Rinascimento italiano, quadro che un paio di figurine lungo un sentiero di campagna le ha, in alto a sinistra alle spalle della Madonna. O pensare invece che si riferisse a una mostra su Andrea del Sarto ospitata nelle sale della Barberini, con opere prestate da altri musei e collezioni (soprattutto fiorentini, perché alcuni dipinti degli Uffizi e di Pitti hanno delle figurine sullo sfondo). Oppure no, magari non c’entra niente Andrea del Sarto ma un altro pittore il cui quadro effettivamente si trova alla Barberini, e a quel punto qualsiasi mia ricerca è inutile, è impossibile decifrare di chi parli Julio, e quell’illuminazione resterà solo sua, l’aleph di un istante a noi precluso, come forse è giusto che sia, o come non poteva non essere.