Archive for the ‘narrazioni’ Category

la stanza degli amanti clandestini

settembre 12, 2019

 

placca

Questa piccola targa veneziana si trova all’entrata dell’hotel La Calcina, nel sestiere di Dorsoduro, di fronte alla Giudecca. Lì davanti ci ero passato un sacco di volte, ma avevo notato solo la placca che ricorda uno dei suoi ospiti più illustri, John Ruskin.calcina

La targa in francese invece l’hanno messa in una posizione un po’ defilata, come se per leggerla bisognasse cercarla bene, meritarsela, e questo è l’aspetto che preferisco di Venezia, che fa riferimento al suo nome: veni etiam, vieni ancora, che una vita intera non basta per scoprire tutti i suoi tesori, insomma un chiaro invito a tornare e ritornare, come diceva Luigi Groto, il cieco di Adria che l’amava tanto e vi morì. Luigi Groto / Gem.v.Tintoretto - Luigi Groto / Ptg.by Tintoretto / C16th - Luigi Groto / Peint. Tintoretto

Il dettaglio curioso della piccola targa in francese è che commemora e ufficializza un amore clandestino, che visse nascosto per molto tempo e che fra quelle mura si rifugiava due settimane all’anno. Infatti lì non soggiornò una coppia ufficiale, ma due amanti famosi, la scrittrice belga Dominique Rolin, morta nel 2012 quasi centenaria e autrice di una trentina di romanzi molto apprezzati in Francia, e Philippe Sollers, lo scrittore e filosofo di ventitré anni più giovane che a Venezia, come città degli innamorati, ha dedicato pagine appassionate che la ripercorrono dalla A di Accademia alla Z di Zattere. sollLa loro relazione cominciò nel 1958 e proseguì anche dopo che lui si sposò con un’altra nota intellettuale francese di origine bulgara, la psicanalista Julia Kristeva, che era all’oscuro di tutto. Il loro epistolario amoroso conta 5000 lettere e durò mezzo secolo. Lui cominciava ogni sua lettera a Dominique con «Mon amour», mentre lei era più fantasiosa: «Mon Philippe chéri… Mon bienamour… Mon tellement chéri… Mon splendamour… Mon homme-amour… Mon toutankamour… ». Il pubblico scoprì la storia del triangolo nel marzo 2000, durante una puntata del Bouillon de Culture, il seguitissimo talk show di Bernard Pivot, quando Dominique rivelò che il suo rapporto con Philippe era scandito da degli appuntamenti precisi: una cena a settimana a Parigi e due viaggi all’anno a Venezia, dove soggiornavano appunto nella stanza n°32 (una doppia classic con vista) al terzo piano di questo albergo.

Storie di materassi e di fughe

agosto 14, 2019

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Che magnifico pittore era Orazio Gentileschi, oscurato in parte dalla fama planetaria del suo maestro più giovane (Caravaggio), e poi dallo scandaloso caso di cronaca che coinvolse sua figlia Artemisia. Le sue opere che preferisco sono la Madonna in adorazione del bambinol’Annunciazione sabauda, che mettono in scena un dialogo muto (con protagonista la stessa modella) pieno di citazioni e riferimenti colti. 220px-Annunciazione_(1623_circa)_-_Orazio_GentileschiPenso che nessun altro artista del XVII sec. riuscì a trattare questi soggetti con altrettanta originalità, grazia e consapevolezza, e sembra impossibile che un analfabeta come lui (nel processo intentato dal Baglione a Caravaggio e i suoi sodali, rei di aver scritto dei componimenti ingiuriosi nei suoi confronti, Gentileschi fu scagionato perché non sapeva scrivere) fosse dotato di una così raffinata cultura formale. Ma al di là di Orazio, questa mostra che si inaugurerà a Cremona fra un paio di mesi mi attrae molto per l’impostazione di comparatistica tematica, il fatto cioè che si potranno ammirare tante opere (non solo pittoriche) che declinano ognuna a modo suo lo stesso soggetto: il Riposo nella fuga in Egitto. Io ho sempre avuto un debole per i cataloghi, le tassonomie, il gioco delle varianti su un tema prefissato, e anche questo post, nel suo piccolo, riflette questa mia passione, gira intorno a degli elementi costanti visti in situazioni differenti nel corso del tempo.

Uno di questi motivi mi riguarda personalmente, nel senso che ha a che fare con mia madre e la sua infanzia a Barcellona. Negli anni 30, figlia di un povero pescatore senza barca, cioè che lavorava per altri, mia madre viveva in una baraccopoli sulla spiaggia. Il posto si chiamava paradossalmente la Mar Bella, ed era una succursale del Somorrostro, un grosso agglomerato di catapecchie che arrivò a contare quasi ventimila abitanti, situato di fronte al quartiere operaio del Poble Nou. Quella baraccopoli fu ritratta, proprio nell’anno in cui mia madre nacque, dalle fotografie di Dora Maar, la futura musa di Picasso. Mamma ci parlava spesso di quei primi anni indigenti, e ci teneva sempre a chiarire che non furono anni infelici. Era molto libera di muoversi e aveva diversi amici coi quali si divertiva con “i giochi di chi non ha giochi”, come quelli che si fanno appunto sulla spiaggia. Uno dei dettagli che più mi colpirono dei suoi racconti era che dormiva su un materasso imbottito di foglie di pannocchie di granturco cheimg-20170427-wa0000doveva mettere in salvo in caso di mareggiate improvvise. Era un grande sacco di tela a strisce con due spacchi laterali nei quali si infilava la mano per sistemare le foglie che col peso tendevano ad ammassarsi ai lati. A distanza di tanti anni, quando volle tornare a morire nella sua terra natale, ancora si ricordava bene dell’intenso odore di mais e del rumore croccante che facevano quelle foglie schiacciate, e di quanto si divertivano lei e le sue sorelle a rotolarcisi sopra la notte poco prima di addormentarsi. 

Forse è un retaggio inconscio di quei racconti il motivo per cui, molti anni dopo, quando vivevamo in un grande appartamento di Milano 2, ai miei occhi di bambino il centro della casa restava sempre il letto della mamma. Era lei che l’aveva scelta dopo averne viste tante, era lei che l’aveva arredata fin nei minimi dettagli. E infatti un giorno, mostrando la casa nuova a degli ospiti importanti, in cui noi quattro fratelli avevamo finalmente ognuno la sua cameretta, io volli puntualizzare che “qui abbiamo tutti il proprio letto, solo papà dorme dalla mamma”.

Da sempre, il materasso per i poveri ha rappresentato la cosa più preziosa che si poteva possedere, quella di cui prendersi cura per prima durante i traslochi, a maggior ragione se avvenivano in modo precipitoso, come nel caso di queste “fughe”. Basta vedere il Riposo durante la fuga in Egitto di Caravaggio, IMG_20190814_112017il particolare del sacco su cui è seduto San Giuseppe, che contiene lo stesso “matarazo” che compare nel Bacco adolescente sdraiato sul triclinio. In entrambi i quadri spicca infatti una riga verde, e sapendo quanto lui fosse abituato a dipingere dal vero, non è azzardato ipotizzare che quel materasso fosse proprio quello del pittore, citato dall’ufficiale giudiziario che redasse l’inventario dei beni di casa sua il 26 agosto 1605. Oltretutto una casa, questa di Caravaggio, che si trovava nel vicolo di San Biagio, la strada dei materassai di Roma in quell’epoca. IMG_20190814_112318 Ma anche nei riposi di Orazio Gentileschi e del Cavalier d’Arpino c’era un materasso arrotolato usato come giaciglio o cuscino da San Giuseppe, e nella celebre foto che immortala il trasloco parigino di Amedeo Modigliani nell’estate 1913, quando dovette sgomberare in fretta la comune di rue Delta, sul carretto caricato dal suo mercante Paul Alexandre c’è posto solo per materassi e quadri, gli unici beni posseduti da un artista nullatenente come il livornese.download

Ma a volte, anche dalle persone benestanti il materasso è fatto oggetto di particolari attenzioni. Cinzia, la ragazza con la quale convissi poco prima di trasferirmi a Roma, pur avendo una colf preferiva occuparsi personalmente del nostro letto, e gli dedicava cure maniacali, come se non tollerasse di farlo toccare a un estraneo. Tutte le mattine lei non rifaceva semplicemente il letto, ma seguiva un rito con delle regole ben precise. Dopo aver orientato la testata secondo i dettami del Feng shui per captare i flussi di energia positiva, risolveva i problemi degli angoli del lenzuolo con l’esattezza di una tavola trigonometrica e tendeva all’infinito il coprimaterasso come se dovesse ospitare l’uomo vitruviano e non esistesse il problema del resto indivisibile. Il nostro letto era un’equazione matematica, la confutazione della teoria del caos. Nel migliore dei mondi possibili lei avrebbe una cattedra di Metafisica della rotazione del materasso, o scriverebbe un saggio (di ispirazione vagamente positivistica) “Sul principio divino e naturale della sistemazione delle lenzuola”. Ed è così che, da elemento imprescindibile del nécessaire de voyage, una specie di minicamper d’antan che ci seguiva in ogni spostamento (come viene ricordato in una scheda storica del bellissimo Museo delle Carrozze di Macerata), il materasso è diventato un oggetto di culto, il totem dei nostri sogni e delle nostre psicosi.4d0684b1d37189bb641c6392fb2c1686.0. 

I libri di Lorenzo

marzo 30, 2019

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Gli artisti-medici

marzo 29, 2019

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Io ho un debole per gli artisti-medici. Non so, secondo me hanno una marcia in più rispetto agli altri. Vedi Burri, Céline, Cechov, Lobo Antunes. Deve essere per una caratteristica peculiare che ha studiato molto un critico-medico, e cioè la cenestesi, cioè quella forma di autocoscienza che ci permette di percepire il nostro corpo attraverso i segnali che ci giungono dagli organi interni. Il critico-medico che si occupò di queste cose era Jean Starobinski, morto di recente, e in molti suoi saggi la cenestesi ha un posto di riguardo. Penso a la Scala delle temperature, un libriccino edito dal Melangolo il cui sottotitolo, che purtroppo nell’edizione italiana si è perso, era Lecture du corps dans Madame Bovary, perché analizzava il capolavoro di Flaubert attraverso la dominante calorica, le sensazioni di calore o di freddo provate dai protagonisti.

Ma cos’è la letteratura, se non un’elaborata auscultazione di sé? Alla base di tutto c’è il bilinguismo arte-scienza, una naturale vocazione multidisciplinare, e in Starobinski anche un posto che l’ha favorito, la sua città, Ginevra, luogo di confine, centro cosmopolita ma insieme ai margini delle usuali tratte turistiche (tanto che non esiste una guida specifica che la riguardi), nonché sede della prima cattedra di letteratura comparata della storia della letteratura. Battiti, palpitazioni, vertigini, brividi, sono indagati come indizi di una personalità, espressioni di un linguaggio più profondo e privo di infingimenti, non contaminato dalle convenzioni, che estende il terreno di studio alla dimensione “intracorporea” come se la sensazione, rifluendo sul soggetto, cercasse di percepirsi incorrotta alla fonte.

Non fa qualcosa del genere anche Mauro Covacich, in Di chi è questo cuore, riferendo ogni accadimento della sua vita alla coscienza elementare del corpo, che gli ricorda i propri limiti? Sarà per questo, e per il mio bisogno compulsivo di “collocare” le scritture, di assegnargli delle precise coordinate spaziali, che ora sento un gemellaggio ideale tra il Villaggio Olimpico di Roma, dov’è ambientato il romanzo del triestino, e rue de Condelle 12 a Ginevra, dove viveva Starobinski? Ricordo che da ragazzo mi colpiva tanto l’abitudine del giornalismo politico televisivo di parlare per indirizzi: Piazza del Gesù per dire Democrazia Cristiana, via delle Botteghe Oscure per il PCI, come se in quei toponimi si celasse una formula magica e misteriosa che mi sforzavo di decifrare. La Renault 4 rossa col corpo di Moro parcheggiata dai brigatisti in via Caetani, proprio a metà strada dei due interlocutori più intransigenti, come un atto d’accusa topografico alla linea della fermezza. 

E poi da adulto l’amore per i libri di Peter Altenberg, la cui proverbiale asciuttezza espressiva lo aveva portato a scrivere della donna amata solo il nome e l’indirizzo, e per i romanzi di Mercè Rodoreda, in cui l’indirizzo acquista il rango di titolo, come Piazza del Diamante, o Via delle Camelie. E infine i brividi miei, nello scoprire gli aneddoti apparentemente senza senso che “legano” due autori amati solo perché i loro destini si sfiorarono in un momento e in un luogo preciso. Come il padre di Starobinski, medico, che constatò il decesso di Robert Musil, suo vicino di casa a Ginevra, il 15 aprile 1942, o la madre di uno dei migliori amici e compagno di classe del piccolo Jean che si chiamava Felice Bauer (“Purtroppo lo seppi tardi, dopo aver tradotto e commentato La colonia penale. E pensare che ci aveva preparato tante buone merende”).

 

la festa

marzo 19, 2019

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Andammo a una festa fuori città e lui si mise a parlare tutta la sera con una. Poi le demmo un passaggio e portarono a casa prima me “perché sei di strada”.

Il Bianciardi a colori

aprile 26, 2015

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C’è stato un periodo, qualche anno fa, in cui il miglior supplemento letterario italiano era il Corriere della Salute. Usciva il giovedì e non me ne perdevo uno, perché ci scriveva Marco Rossari. Quando gli chiesi cazzo ci faceva lì mi rispose che non sapeva dove altro scrivere. L’unico aggancio che aveva con un giornale cartaceo era il caporedattore di quell’inserto, così aveva cominciato a buttar giù dei pezzi-ponte dai titoli curiosi come “Philip Roth e i disturbi alla prostata”, “Curarsi coi libri” o “le emorroidi nei racconti di Cechov”. Le prime righe dell’articolo di solito erano impeccabili, descrivevano la sintomatologia dei vari disturbi e indovinavano a colpo sicuro l’eziologia (tipo le lunghe chiacchierate dei personaggi di Cechov seduti in panchina o i rapporti sessuali non protetti con partner a rischio nei romanzi di Roth), ma subito dopo l’autore partiva per la tangente letteraria e non ce n’era più per nessuno. Io lo consigliavo a destra e a manca ma non venivo preso molto sul serio, probabilmente pensavano fosse solo un paradosso simpatico. Da un lato ero dispiaciuto, mi sembrava di rivivere il periodo in cui feci il fattorino in una libreria, una quindicina di anni fa. Era l’epoca d’oro di Ronaldo all’Inter, il fenomeno, e al mio collega milanista in magazzino ogni tanto consigliavo entusiasta un libro, al che lui scuoteva la testa dicendo: “sì, sì, tutti fenomeni”. Per altri versi invece era bello che solo in pochi conoscessero Rossari, mi gustavo un piacere semiclandestino, da samizdat. Adesso la pacchia è finita (la pacchia da happy few, che la sua è appena cominciata); adesso in tanti si sono accorti del suo talento e lo si può leggere da varie parti, come il mensile IL del Sole 24 Ore, Wired, la Rivista Studio ed altre ancora. Sfogliando questi periodici si riconoscono subito i suoi pezzi. Marco ha una scrittura graffiata inconfondibile, insieme improvvisata e precisissima, visionaria e trasparente, piena di ombre, di rimpianti e di momenti di felicità che irrompono all’improvviso fra le pagine come il Lazzaretto inondato di luce fra le sagome scure dei palazzi di Porta Venezia. Riesce a dire peste e corna di Milano (vedi qui), della sua aria irrespirabile e delle sue apericene, e al contempo a far sentire che ne è irresistibilmente attratto, che non la cambierebbe con nessun’altra. L’ossimoro è la sua cifra stilistica, la forma verbale più adatta a sintetizzare la dialettica delle contrapposizioni irrisolte, che dà vita a un processo di chiaroscurificazione del mondo in cui il registro dolente si accompagna sempre a quello comico, come le passioni alle idiosincrasie. Rossari è un Bianciardi a colori, senza Mulas, il Jamaica e le velleità rivoluzionarie da maremmano incazzato. Nei suoi racconti, quell’incazzatura si è talmente stemperata e metabolizzata nell’alcool e nelle cartelle di traduzione che se ne trova traccia solo in alcuni personaggi stralunati (come Tuoné il bello e il timido Spino di Invano veritas) e in certi lividi scorci (Vetra, l’Arci Tristezza) di questa città “appestata, invivibile, bellissima”. Perché se c’è qualcuno che può cantargliene quattro a Milano, magari in un bel Contromano Laterza, questo è Marco Rossari.

Polvere

dicembre 10, 2012

falci

http://www.bcomeblog.com/racconti/prodotto/18/Polvere

il principe azzurro

ottobre 16, 2012

Sere fa mi è capitato di cenare allo stesso tavolo con Pupi Avati. Eravamo nel ninfeo di Villa Giulia, dove a luglio si svolge la cerimonia di assegnazione del Premio Strega,  e lui era lì come presidente della giuria di un festival televisivo che si era appena concluso.

Fra i commensali c’era un produttore televisivo che, ignorando il fatto che Pupi Avati aveva premiato la fiction di un concorrente, ha definito questa fiction “una cagata”, indispettendo parecchio Avati. Il diverbio è andato avanti per un po’ fino a che si sono invertite le parti, nel senso che Avati ha bollato come “boiata” la fiction di maggior successo del produttore televisivo provocando la sua stizza. In verità si scontravano due modi completamente diversi d’intendere il rapporto qualità-consenso. In tv sono considerati l’uno la conseguenza dell’altra, e una fiction con scarsa audience è una brutta fiction; al cinema invece un brutto film può essere il più visto (e viceversa).

Lo stesso pensavo quando frequentavo il corso di sceneggiatura alla Rai: un romanzo e una sceneggiatura sono parimenti scrittura narrativa, ma hanno criteri di valutazione fra loro incompatibili. Forse dipende dal quid di artisticità che gli si attribuisce: laddove si pensa che ci possa essere (i film cinematografici, i romanzi), del successo si può fare a meno, e si troverà sempre qualcuno disposto a riconoscerti un talento incompreso. Di solito sono le fidanzate, i parenti o gli amici più stretti a incaricarsi di consolarti e lodarti; ma nel caso di un regista o un romanziere famosi eppur non di cassetta possono essere anche dei perfetti sconosciuti.

Verso la fine della cena Avati mi ha raccontato la storia di uno di questi, un millantatore che lo chiamava continuamente “Maestro” e lo subissava di complimenti. A suo dire Avati non era abbastanza conosciuto all’estero, di certo non come avrebbe meritato, e così lui si offriva di organizzargli rassegne monografiche in luoghi prestigiosi e gli assicurava ampi servizi sui periodici più letti affinché venisse presto riparato il torto. Avati ne intuì subito l’inconsistenza, e difatti in seguito questo scomparve, ma confessò che nel mentre aveva ascoltato rapito quella bellissima fiaba, nella quale a lui era stata assegnata la parte del principe azzurro.

Acqua

settembre 27, 2010

di Vera Behles

C’è tanta acqua nella mia vita. Mia mamma, mio fratello ed io passavamo cinque mesi l’anno al mare, da maggio a ottobre, insieme alla zia e alle cugine, nostre coetanee: abitavamo quasi tutto il tempo nella villa bianca della nonna materna che affacciava su un mare di scogli e polpi, e una parte più piccola dell’estate nel villino a mare della nonna paterna, che distava cinquanta metri dalla spiaggia. Dal secondo piano di una casa si vedeva l’altra. Fu così che si conobbero i miei genitori, fu lì che si innamorarono. Lei sedici, lui diciannove anni. (more…)

Stato di famiglia

agosto 8, 2010

 

di Vera Behles

Mia nonna da ventiquattrore è in clinica e lotta contro la morte: è disidratata e ha una crisi respiratoria. Ha novantaquattro anni, e da qualche tempo l’unica cosa che le dà piacere è mangiare. Prima leggeva. Vite dei papi, encicliche, storie esemplari di santi e padri pii. Donne, niente. La fede di mia nonna vive sotto il segno della mascolinità, nel pieno spirito del cattolicesimo più tradizionale. Il suo padre confessore era un gesuita raffinato e colto che la faceva sentire una nullità, lei che era poco istruita e per questo riponeva in lui la massima fiducia. I compiti delle dame, nella congregazione, erano di realizzare orribili presine a uncinetto, ricamare centritavola di cotone con disegni natalizi o pasquali e preparare dei cestini di viveri per certe famiglie di poveri che erano sotto la loro protezione.
La nonna ora non può più leggere, che ha la cataratta. Non può più lavorare con l’ago o con l’uncinetto, che ha l’artrosi alle mani. Mangia. (more…)