Archive for the ‘riflessioni’ Category

Il genio di Raffaello

giugno 29, 2020

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Coerentemente con l’anniversario – il cinquecentenario della morte – la mostra su Raffaello alle Scuderie del Quirinale parte dalla fine. Il centro focale è la sua morte, i solenni funerali di Stato descritti con ammirazione dal Vasari a decenni di distanza, e tutta la parabola umana e artistica del genio urbinate prende avvio dal suo termine, come una formidabile carrellata a ritroso, un lungo flashback che giunge infine agli esordi, all’alunnato presso il padre Giovanni rappresentato dal disegno di un volto e di una mano.

Insomma, se non vi disturba lo spoiler e l’obbligo d’indossare la mascherina e di sostare cinque minuti per ciascuna delle sedici sale (sì, in totale fa quasi un’ora e mezza), non perdetevi questa mostra. Dietro l’apparenza innocua e reboante della grande monografia e dei “prestiti eccezionali” si cela, grazie a una semplice inversione cronologica, un’acuta riflessione sul genio artistico. Il genio che tutti celebriamo soprattutto quando è morto e ci manca, perché la sua funzione precipua è proprio il mancare, al pari del coniuge ricco, che non è mai così benvoluto come quando se ne può denunciare la scomparsa.

Saul Steinberg nel ventennale della morte

luglio 18, 2019

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Che tipo, Saul Steinberg. Strano che di un personaggio come lui non si sia parlato molto sui giornali in questi mesi in cui ricorreva il ventennale della sua morte. A me è sempre piaciuta la sua cartografia interiore, al punto che suggeriva di  sostituire la parola “autobiografia” con “autogeografia”, come se la vita fosse essenzialmente una questione di luoghi, di collocazioni e prospettive, come nella celebre copertina del New Yorker che mostrava il mondo visto dalla Ninth Avenue. NYorkSteinberg non offrì l’indicazione precisa dell’incrocio in cui aveva fissato il suo punto di vista, cioè con quale street di Manhattan s’intersecava la Nona avenue. All’inizio avevo pensato che potesse essere l’indirizzo di casa sua, anche se ulteriori ricerche lo hanno collocato altrove, sulla 75esima fra Park e Lexington,casasaulsteinberg  ma la copertina è del 1976, e quello poteva essere un indirizzo di casa precedente. Poi ho pensato che magari in quell’incrocio c’era la sede del New Yorker, la rivista che commissionò l’illustrazione, ma anche quell’ipotesi si rivelò sbagliata. Forse in fondo speravo che fosse qualcosa di personale, come se quel disegno testimoniasse il suo amore per un angolo di mondo al quale finalmente sentiva di appartenere, dove lui, ebreo errante nato in Romania, passato dall’Italia e approdato negli States, avesse messo radici e avesse voluto dichiarare la centralità, al pari del crocevia di Brooklyn fotografato tutte le mattine da Harvey Keitel nel film Smoke scritto da Paul Auster, e che poi ho scoperto essere l’indirizzo di casa proprio di Auster (o quasi, come spiega Raffaella De Santis in un’intervista allo scrittore americano pubblicata su Robinson).smoke_keitelSteinberg visse anche a Milano dal 1933 al 1940, e se ne andò in USA solo a causa della promulgazione delle leggi razziali, per le quali prima fu anche rinchiuso in un campo di detenzione a Tortoreto, in Abruzzo. A Milano giunse dal natio borgo selvaggio in Romania per studiare al Politecnico, alla facoltà di architettura, e prese alloggio a Città Studi, in una camera in affitto sopra il bar del Grillo in via Pascoli 64, vicino all’università, un bar che era stato progettato dagli architetti Peressutti e Rogers (due del gruppo BBPR, quello che fece la Torre Velasca). Anche di questo suo angolo di mondo ci ha lasciato dei disegni, sia dell’esterno, bargrill cioè la vista sulla strada, che oggi sembra molto cambiata, come se quell’edificio fosse stato demolito e rimpiazzato poco dopo da un palazzone razionalista, che dell’interno, la sua cameretta disordinata con la scrivania ingombra di matite e righelli e la vista sul “Cremlino”, il palazzo art decò chiamato così  per le sue forme fantastiche con cupole e pinnacoli, che fu costruito negli Anni 20 e oggi è la sede della Facoltà di ricerche chimiche e biomediche.bargrilIl disegno sembra fondere insieme la celeberrima cameretta di Van Gogh ad Arles, ed anche il suo dipinto con la vista sui tetti di Montmartre che eseguì dalla stanza in rue Lepic dove era ospite del fratello Theo. lepicMa a guardare le sue illustrazioni con attenzione si scoprono molti dettagli incongrui, per questo parlo di cartografia interiore, come se in realtà fossero metafore o simboli di qualcos’altro (la copertina del New Yorker intitolata View of the World from 9th Avenue rappresenta il mondo come se fosse solo le propaggini vaghe e indistinte dell’isola di Manhattan). Il tempo stesso nei suoi disegni ha una disposizione spaziale, di attraversamento, come una terra incognita da esplorare che riserva sempre sorprese. steinb Ma il tratto leggero, ironico e svagato della sua matita non deve trarre in inganno. Al fondo c’è un cuore nero che si manifesta con quelle figurette allucinante tra Hieronymus Bosch e George Grosz IMG_20190727_194012e che probabilmente in parte ha reminescenze personali, come nei disegni di quelle famiglie che si gettano unite dal tetto di grattacieli, e che non possono non ricordare la triste fine di Sigrid Spaeth, la proto hippy con cui ebbe una tempestosa relazione durata trentacinque anni, alla fine della quale lei si gettò dal tetto del palazzo dove lui le aveva comprato un appartamento. Che ne è stato di quell’uomo che in un famoso fotomontaggio teneva per mano un sé stesso bambino spaurito e confuso, quell’uomo consacrato dalla critica come uno dei graphic designer più importanti del XX sec.? Un ebreo che durante il fascismo si manteneva disegnando per due periodici satirici sostanzialmente conniventi col regime, come il Settebello (dove collaboravano Campanile, Zavattini e Maccari) e il Bertoldo (dove collaboravano Guareschi, Marcello Marchesi e Fellini), e che disegnò il mondo come  se stesse facendo il suo autoritratto? Forse la vera natura di Steinberg la colse solo la moglie Hedda Sterne, anche lei di origine romena, la sola donna artista che comparve sulla copertina di Life nel 1951 assieme ai protagonisti dell’Espressionismo Astratto americano. Un bel giorno, dopo vent’anni d’infedeltà a volte anche sfacciate, Hedda gli disse: «Sai perché siamo rimasti amici così a lungo noi due?». E di fronte al suo silenzio scocciato e condiscendente si rispose da sola: «Perché siamo le due persone che ti amano di più al mondo».

Disattendere le aspettative

Maggio 28, 2019

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Un giorno Tiziano Scarpa, con un affettuoso messaggio privato che apprezzai molto, mi invitò a scrivere il libro che avrei voluto leggere. Cercava di spronarmi, di vincere le mie titubanze, e per certi versi ci riuscì, dato che poco dopo esordii, ma la verità è che nessuno scrive mai ciò che vorrebbe leggere, si scrive solo ciò che si è capaci di scrivere. Anni fa lessi Stoner di John Williams, un libro che speravo da tanto tempo di leggere, un libro che non sarò mai capace di scrivere. Stoner vendette parecchio in tutto il mondo, anche da noi. All’inizio, quando uscì la prima volta nel ’65, non se lo filò nessuno. Poi, quando lo ristamparono nel 2012, esplose. Io so che il numero di copie vendute non indica la qualità di un libro, e neppure il suo contrario, però sono convinto che qualcosa indichi. Non so bene cosa. Si dice che i best seller diano alla gente quello che vuol sentirsi dire. In parte forse è vero, ma esiste pure il suo contraltare pseudo-positivo, il libro che piace ai critici perché gli dà quello che si aspettano: le scritture crude e disincantate, dell’autore che ti maltratta (“quanto oggi ci sia bisogno di una letteratura che dia schiaffi, alle volte anche dei calci in bocca ben assestati”), che ti spiega il mondo senza essere mai uscito dal raccordo anulare, quello che parla solo di degrado e sopraffazione, come se bastasse ritrarre un cesso abbandonato sul marciapiede per “cogliere la verità della vita”. O i romanzi dei funamboli dello stile, dei pastiche linguistici da virtuoso erudito che gioca con tutti i registri, come se il miglior basket fosse quello degli Harlem Globetrotter. E poi ci sono i libri di qualità che disattendono le aspettative del pubblico, eppure riescono a vendere bene lo stesso. Forse perché il pubblico non è questa entità monolitica e ottusa che si ingiuria a man bassa, ma è fatto da tante persone diverse, spesso pigre e bisognose di consolazione, ma a volte anche desiderose di essere contraddette, magari senza neppure sospettarlo. 

Il cortile di casa Caravaggio

febbraio 28, 2019

IMG_20190226_123339Eccolo qua, uno dei cortili più segreti, anonimi e inaccessibili di Roma. Ci sono passato davanti tante di quelle volte sperando di trovarlo aperto; un giorno ho pure citofonato a un inquilino dicendo che ero un giornalista e chiedendogli il permesso di entrare ma niente, non c’è stato verso, mi hanno lasciato fuori. Ieri però sono stato fortunato. Ho incontrato una ragazza che ci lavorava, il mio racconto l’ha impietosita e mi ha concesso di starci un po’ e scattare qualche foto. Siamo in centro, a Campo Marzio, precisamente in vicolo del Divino amore, la strada più bella della capitale secondo Cristina Campo. Al civico 19 non c’è alcuna targa che lo segnali, sembra per l’opposizione del proprietario dello stabile, ma si sa per certo che ci abitò Caravaggio. Di più, questa, per quanto ci è dato di sapere, è l’unica casa esistente in cui lui visse da solo, cioè non ospite di altri, fossero i suoi mecenati nobili o cardinali oppure amici e colleghi. Non ci restò a lungo, poco più di un anno, dai primi di maggio 1604 al 29 luglio 1605, quando scappò a Genova per paura di finire in galera dopo aver ferito il notaio Mariano Pasqualone ed essere stato denunciato. Fu allora che la padrona di casa, Prudenzia Bruni, chiese e ottenne il sequestro di tutti i suoi beni per morosità. Pare che non la pagasse da circa sei mesi, e in più la Bruni lo citò per danni avendo lui sfondato il soffitto per realizzare una finestra che facesse entrare luce nel suo studio. L’appartamento infatti era sia casa che bottega, qui Caravaggio visse e dipinse in compagnia di Francesco Boneri detto Cecco, il modello di tanti suoi dipinti, nonché garzone e compagno di avventure. Dal contratto di affitto sappiamo che l’abitazione era a due piani e disponeva di un portichetto che affacciava su un cortile dotato di pozzo e di un piccolo orto (salam cum duabus cameris ut diceret al piano cum suffittis et eorum stantis superioribus, ac cum cantina suptus dictam domum, cortile, et horto in ea existentes nec non cum usu et facultate abuendi aquam a puteo in ipso presente dictae domus existens). Molti elementi dell’esterno della casa menzionati in quel contratto sono ancora oggi presenti o intuibili. Per esempio la cornice in travertino posta dove un tempo sorgeva la vera del pozzo (il puteo) e oggi invece c’è un lampione. Poi  le quattro caditoie per convogliare l’acqua piovana nella cisterna sotterranea, perfettamente conservate e funzionanti, segnalate dalle quattro diagonali che dal lampione conducono agli angoli principali del cortile. E pure le leggere pendenze della pavimentazione in selci, inclinata verso le quattro caditoie e con il cerchio centrale a un livello leggermente rialzato. Sul fondo del cortile rettangolare inoltre, separato da un piccolo muretto e dalla figura inquietante del mio amico Paolo, c’è uno spazio con piante e alberelli che probabilmente è quanto resta dell’orticello in uso al Merisi.

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Infine, guardando verso l’accesso che dal vestibolo immette nel cortile, emerge la traccia dell’antico portichetto su due ordini (al piano terra e al primo piano), ampiamente rifatto e  ampliato, che corrisponde al discoperto domo sotto il quale fu stipulato il contratto di affitto tra Caravaggio e la signora Bruni in quel lontano giorno di primavera. Questo portichetto, originariamente della profondità di circa un metro e mezzo, corre lungo tutto il lato interno della casa (in parallelo al vicolo) e, con ogni probabilità, proseguiva formando una L lungo il lato sinistro del cortile, forse in corrispondenza della casa della proprietaria, che era adiacente a quella di Caravaggio. Il portico, impiantato su quattro robusti pilastri quadrati, regge un secondo ordine di colonne ugualmente quadrate, ma più leggere, che costituiscono il loggiato delle stanze al primo piano, protetto da ringhiere.

Giustapposizioni di luoghi e di vite diverse, una delle cose che più amo.

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la figurina sul sentiero

dicembre 1, 2018

Andrea del Sarto - Carità
“Non ricordo quando fu ma certo a Roma, alla galleria Barberini, stavo analizzando un Andrea del Sarto, quello che si dice analizzare, ed ecco che mi sono accorto. Non chiedermi che te lo spieghi. Me ne sono accorto, ho visto chiaramente (e non tutto il quadro, solo un piccolo particolare, una figurina lungo un sentiero). Mi sono venute le lacrime agli occhi, ecco tutto”.

A pag. 499 di Rayuela c’è questo passo illuminante di Julio Cortázar, proprio nel senso dell’illuminazione, di una folgorazione istantanea, qualcosa che non è spiegabile né trasmissibile a parole, ma che all’improvviso ti fa vedere le cose chiaramente, arrivando addirittura a commuoverti, perché una vera illuminazione può sfociare solo nel silenzio o nel pianto. Julio racconta (per bocca del personaggio Etienne, uno degli amici del Club del Serpente) questa storia in modo un po’ criptico e laconico ma con riferimenti precisi: è sicuro che si trovasse a Roma, alla Galleria Barberini, e che il quadro a cui apparteneva quel dettaglio che lo colpì tanto, la figurina lungo il sentiero, fosse opera di Andrea del Sarto. Ora io ho controllato, prima in rete poi di persona, andando al museo, e i due dipinti di Andrea del Sarto della Barberini non hanno figurine sullo sfondo. Sono due soggetti religiosi (una sacra conversazione e una madonna) privi di comparse. Allora ho pensato che l’argentino si fosse sbagliato, in fondo l’ultima volta che era stato a Roma risaliva al ’52, con la fidanzata Aurora Bernardez, quando viveva in una stanza in affitto in via di Propaganda Fide 22, vicino a piazza di Spagna, mentre Rayuela è del ’63, e anche considerando che quel brano Cortázar l’abbia scritto prima del suo capolavoro, dato che la stesura di quel romanzo durò parecchio, io quasi due lustri in mezzo ce li vedo lo stesso. Si sarà confuso, avrà fatto un errore sul “pittore senza errori”, come Vasari chiamava Andrea del Sarto con ammirazione per le sue abilità tecniche ma anche con un pizzico di ironia per la freddezza dei risultati, per quelle composizioni così algide e poco transitive, che spesso restano sulla tela e non riescono a toccare emotivamente lo spettatore (secondo l’aretino per colpa della moglie di Andrea, di cui il pittore sarebbe stato succube al punto da fare uno sgarbo al re di Francia). Se così fosse, si potrebbe ipotizzare uno scambio con un’altro dipinto di Andrea, la Carità al Louvre, che lui doveva per forza aver visto, abitando a Parigi ed essendo un amante del Rinascimento italiano, quadro che un paio di figurine lungo un sentiero di campagna le ha, in alto a sinistra alle spalle della Madonna. O pensare invece che si riferisse a una mostra su Andrea del Sarto ospitata nelle sale della Barberini, con opere prestate da altri musei e collezioni (soprattutto fiorentini, perché alcuni dipinti degli Uffizi e di Pitti hanno delle figurine sullo sfondo). Oppure no, magari non c’entra niente Andrea del Sarto ma un altro pittore il cui quadro effettivamente si trova alla Barberini, e a quel punto qualsiasi mia ricerca è inutile, è impossibile decifrare di chi parli Julio, e quell’illuminazione resterà solo sua, l’aleph di un istante a noi precluso, come forse è giusto che sia, o come non poteva non essere.

morirci sopra

ottobre 3, 2018

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“Ci moriva sopra a riguardarla”. È la frase su Caravaggio detta da un suo contemporaneo che mi è più rimasta impressa. Si riferisce alla Santa Margherita di Annibale Carracci, e la pronunciò un allievo del bolognese. Il Merisi che si strugge per il dipinto di un collega, di un “rivale”, al punto da morirci, come si dice di qualcosa o qualcuno che ci piace tantissimo, “mi fai morire”. Io non ci vedo invidia, ma solo un atto di resa, l’ammirazione incondizionata per un’opera molto diversa dalle sue, così composta e ariosa, paragonabile al massimo al Riposo nella fuga in Egitto del lombardo, di contro alle tele della cappella Contarelli, piene di dramma e di pathos, di interrogativi e di ombre. Che poi non è neanche così diversa, son due naturalismi paralleli, entrambi originali, due splendide monadi come probabilmente furono le vite di Caravaggio e del Carracci, isolate e incomunicanti ma con un comune orizzonte di qualità e di obiettivi.

Per cosa si muore sopra al riguardarlo? Cosa ci trafigge il cuore con la sua bellezza, come il pugnale o la spada che Caravaggio si portava dietro senza licenza e che gli furono sequestrati e disegnati nell’interrogatorio del suo arresto? Ognuno ha i suoi innamoramenti estetici, e chi sostiene di non averne in realtà ha un problema. Io di recente muoio sopra L’impero dei segni di Roland Barthes, la sua luminosa intelligenza, il suo stile prezioso e asciutto che dice tutto in due righe. E la pala di Brera di Piero, quell’uovo penzoloni come il lampadario degli Arnolfini, poi il Bellini di San Zaccaria, le mani del Crivelli, il mare dei faraglioni di Lipari d’estate, ma solo la scrittura ha un effetto dissuasivo in me, solo lei mi fa morire qualcosa dentro per davvero, rendendo evidente sia la maestria di chi leggo che i miei limiti.

separazioni

giugno 4, 2018

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Alle stazioni dei treni mi piace guardare le separazioni. Tra chi parte e chi resta, tra amici, fidanzati, o genitori e figli e viceversa. Non ascoltare le parole che accompagnano le separazioni, e neppure spiare le lacrime, i baci o gli abbracci, ma cogliere l’attimo in cui torniamo ad essere soli, l’attimo in cui ci ritiriamo, scivoliamo mestamente indietro, come una specie di moonwalk dell’anima. È la frazione di secondo che precede l’allontanamento, quando lo sguardo si distoglie dalla persona cara e comincia la prima rotazione del corpo in senso opposto, appena il treno è partito e l’altro esce dal nostro campo visivo. Una sorta di stallo in cui forse, per me, si racchiude il mistero e il fascino dei rapporti umani, come uno iato tra l’essere e il non essere insieme.

Ora lo faccio di rado, anche in prima persona e per strada, però rivivo sempre la stessa sensazione. Come ieri mattina, che passavo in macchina da viale Regina Margherita per andare in ufficio e, fermo in coda a un semaforo, mi sono ritrovato davanti una ragazza che aspettava l’autobus guardando il cellulare. Era appoggiata a una ringhiera e aveva un casco in mano, come se fosse arrivata lì in motorino, o come se stesse andando a prenderlo. Era molto bella, lo si capiva subito anche se mi dava le spalle, ma ad attrarmi c’era pure la consapevolezza che di lì a poco l’avrei perduta per sempre. Io me ne stavo andando per la mia strada e lei restava sulla sua, ignara di quel bivio, del mio passaggio, del mio interesse per lei, della mia esistenza al mondo. È scattato il verde e sono partito, ma mi son voltato e ho voluto fotografarla una seconda volta, mentre già si stava trasformando in ricordo. E poi ho proseguito incontro agli altri infiniti e inconsapevoli addii di cui è composta ogni giornata, come in quei versi del mio poeta preferito che cantano la fugacità di tutte le cose e i limiti delle nostre vite.

 

Las cosas que no hay que ver

Maggio 1, 2018

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Alla fine del 1949 per Cortazar comincia a concretizzarsi la possibilità del tanto sospirato viaggio in Europa. L’ha programmato da tempo e non sarà una semplice vacanza, ma il giro di ricognizione per decidere se il suo sogno di stabilirsi definitivamente nel vecchio continente è fattibile o meno. Ha bisogno di consigli pratici, in particolare dagli amici che ci vivono, come Fredi Guthmann, che sta a Parigi. Allora gli scrive chiedendogli espressamente “las cosas que no hay que ver” della ville lumiere.

La mia passione per il cronopio maximo si deve anche a queste piccole cose, non solo alla sua maestria letteraria. Anni fa, prima di leggere quella lettera avevo progettato di scrivere una guida turistica in negativo, una specie di baedeker incentrato sui luoghi di Roma da evitare. Non un must see insomma, piuttosto un must avoid. Il titolo provvisorio era un po’ forte ma di grande effetto, Posti demmerda, poi gli amici mi convinsero a desistere per l’alto rischio di denunce, sebbene la pratica di parlar male di un locale sia oggi ampiamente accettata ed esercitata, come dimostrano le tante stroncature spietate che si possono leggere su Tripadvisor.

Come Cioran, io credo nel valore didattico degli esempi negativi (e ci crede pure Claudio Giunta, autore del manuale Come non scrivere, edito da Utet), e penso che i disgusti siano meno datati dei gusti, che ciò che non ci piace ci appartenga e ci aderisca molto più fedelmente di ciò che ci piace, oltre a resistere più a lungo ai nostri cambiamenti d’umore e di opinione. Il no è diretto, immediato, non accondiscende, non indora la pillola, non vuol far bella figura, è l’opposizione ostinata di Bartleby (vedi anche l’elogio del no contro il sì nella lettera che Melville scrisse al suo vicino Hawthorne), il rifiuto del bimbo di condividere i suoi giocattoli con gli amichetti, nasce dal sangue e dalle viscere, prorompe senza filtri né calcoli fregandosene delle convenienze e delle buone maniere, e infatti, come diceva Emily Dickinson, no è la parola più selvaggia del dizionario (questo me lo ha ricordato Nel cuore della notte, il nuovo, bellissimo romanzo di Marco Rossari). O no?

memoria e oblio

aprile 17, 2018

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Ho letto una dichiarazione di George Steiner che non condivido. In realtà non è solo sua, appartiene a tutti, la sentiamo ripetere ogni giorno, ovunque, e per questo penso che sia importante esprimere e spiegare il mio dissenso. Steiner dice: “Noi siamo ciò che ricordiamo”. Così, secco, sulla scia di una serie infinita e abusatissima, a partire dal “Noi siamo quello che mangiamo”. No, manco per niente, mi viene da contestargli. Noi non siamo i nostri ricordi. Se proprio la vuol mettere su quel piano, l’ego è un mix di memoria e oblio, un arazzo la cui trama è composta dai ricordi ma con l’ordito fatto di oblio. Perché le due cose sono intrecciate insieme, non si contrappongono o escludono a vicenda, ma ciascuna detiene il senso dell’altra. I ricordi da soli sono un catalogo di ombre e fantasmi, non a caso da Omero a Dante a Freud l’esperienza del ricordo è sempre stata rappresentata come un viaggio nel regno dei morti. Memoria è, letteralmente, “morìa di me”, un piccolo obituario personale, una teoria di mancanze, però l’oblio non va inteso solo come memoria perduta, ma anche come memoria riscattata, fatta propria, metabolizzata, qualcosa di costitutivo che ci definisce e insieme testimonia l’insostituibile presenza di chi ci ha lasciato. Ma la parola che potrebbe alludere a quelle sparizioni resta comunque al di qua del dicibile, è il simulacro di un annuncio e di un’attesa perché sempre promessa e sempre differita.

Un mio pezzo allegro sul Foglio

aprile 6, 2018

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