Guarda che non sono io

Roma è piena di vip. In tre anni qui ne ho visti più che in 47 a Milano. E c’è pure un atteggiamento diverso nei loro confronti, da parte della gente comune, a Roma rispetto a Milano, forse proprio per il gran numero. I milanesi sono più discreti, li notano ma non li importunano; mentre i romani li avvicinano ma lo fanno con una certa familiarità, come di chi appunto ci ha a che fare tutti i giorni. A Prati, il quartiere che bazzico più spesso, se ne incontrano a ogni angolo, credo anche per la presenza della Rai nelle vicinanze. Qualche settimana fa avevo incrociato Francesco De Gregori in via Sabotino, all’altezza del bar Antonini. Camminava tutto solo sul marciapiede con due sacchetti della spesa e la sua solita aria sgualcita, la stessa che non dissimula nelle occasioni pubbliche, quando fa un concerto per esempio. Indossava un cappottone liso e un cappello floscio, procedendo a lunghe falcate distratte con lo sguardo basso. Oggi mi è venuto in mente quando ho ascoltato questo suo brano alla radio, mentre aspettavo in macchina che il piccolo terminasse la lezione di musica. Intorno a me c’era la tipica frenesia natalizia, un andirivieni continuo di auto e persone con pacchetti regalo, ma io ero come ipnotizzato. L’ho trovata bellissima, al pari dei suoi grandi successi del passato. E penso che esprima qualcosa di profondo sul rapporto fra gli artisti famosi e la gente comune, sulla presunzione da parte nostra di conoscerli attraverso le loro opere.

Gli scrittori in genere sono meno esposti dei cantanti o degli attori agli inconvenienti della fama, non vengono importunati tanto come questi ultimi. Sono figli di un dio minore. Però anche gli scrittori, sia quelli noti che quelli sconosciuti come me, potrebbero dire lo stesso. Alle presentazioni chi legge crede di conoscere intimamente chi scrive, e questo in virtù del fatto che lo ha letto. La domanda più frequente, sulla quale s’interrogava anche Franzen nella sua ultima raccolta di saggi, è proprio “quanto c’è di autobiografico?”. Vogliamo una conferma, sospettiamo che ogni libro sia un documento fedele della personalità del suo autore, lo strip-tease della sua anima. Io, quando andavo a una presentazione, lo pensavo, e magari solo per timidezza evitavo di chiederlo. Anche per questo inserii la citazione di Walcott in esergo al mio romanzo (“C’è una memoria che nasce dall’immaginazione e dalla letteratura e non ha nulla a che vedere con l’esperienza effettiva. È, di fatto, una vita parallela“), per sviare dalle facili identificazioni. Tuttavia questo avviene ugualmente, e non c’è avvertenza che valga come dissuasione. Forse perfino la scarna nota dei ringraziamenti che misi in conclusione, dove parlavo di arazzo patchwork composto da citazioni altrui, era un monito di quel tipo, come a dire: guarda che molte di quelle parole non mi appartengono. Guarda che non sono io.

Qualche mese dopo l’uscita del mio romanzo salii a Milano per partecipare a un dibattito letterario che andava in onda in tarda mattinata su un’emittente televisiva privata. Poi raggiunsi mia madre a Monza per l’ora di pranzo. Mangiammo assieme e mi disse che in tv venivo male, sembravo più grasso e vecchio di com’ero. Al momento dei saluti, per andare a prendere il treno che mi avrebbe riportato a Roma, mi chiese di fermarmi un attimo al bar di un suo conoscente. Questi aveva letto il mio libro e le aveva detto che gli sarebbe piaciuto averlo autografato. Così, di passaggio verso la stazione, entrai per salutarlo e farci due chiacchiere. Fu molto gentile. Non si parlò del libro, mi domandò solo come mi trovavo nella capitale. Risposi che ero contento di essermi trasferito, e che Roma era una città accogliente. Lui mi guardò in modo complice e, calcando molto sull’ultima parola, affermò: “è una città che ti ha … adottato“. Firmai la sua copia e annuii sorridendo con un po’ d’imbarazzo. Era certo di aver colto il nocciolo della mia vita, di essere entrato in contatto con il mio segreto più intimo e sofferto, quello che ero riuscito a confessare soltanto per iscritto. Forse lo avrei deluso se gli avessi rivelato che era una bugia, una banalissima “licenza poetica”. Uscendo pensai che in fondo era un complimento. Se così tanta gente ci aveva creduto, compresi alcuni amici d’infanzia, voleva dire che ero stato convincente, che la storia aveva funzionato.

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7 Risposte to “Guarda che non sono io”

  1. eziotarantino Says:

    Come al solito siamo d’accordo. E’ una canzone bellissima e il tuo pezzo è bellissimo.

  2. Benedetta Ventrella Says:

    La canzone ha colpito molto anche me, è sincera, vera, ma stronza come solo DeGregori sa essere. E ci piace anche per questo. Garufi non ne sbagli una.

  3. sergiogarufi Says:

    ezio e benedetta, grazie, siete gentili.

  4. sara Says:

    che meraviglia questo pezzo, quasi sprecato per un piccolo blog come la vie en beige. sarebbe un bel libro un’antologia di questi post.

  5. gattaliquirizia Says:

    ascolto il brano …

  6. franco Says:

    Bello, molto.

  7. gianni montieri Says:

    bel pezzo sergio, sono d’accordo sulla canzone e sulle considerazioni che fai

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