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Show don’t tell

ottobre 18, 2012

Marco Rossari, oltre a essere un ottimo scrittore, è pure uno dei migliori traduttori dall’inglese in circolazione (per esempio Arrivano i Sisters di Patrick De Witt, uno dei suoi ultimi lavori, è un libro godibilissimo anche grazie alla sua eccellente trasposizione in italiano). Poco tempo fa, alla presentazione romana del suo irriverente zibaldone (L’unico scrittore buono è quello morto, e/o), gli ho sentito raccontare un episodio istruttivo sul suo lavoro di traduttore. Diceva che spesso, traducendo dall’inglese, gli capitavano espressioni tipo “aggrottò la fronte” o “si mordeva le unghie”, e se lui traduceva letteralmente poi l’editor italiano lo redarguiva invitandolo a sostituirla con “era perplesso” o “era nervoso”.

In questo piccolo aneddoto si compendiano due scuole di scrittura: quella anglosassone, behaviorista, comportamentale, con la regola del “show don’t tell”, ossia “mostra, non dire”; e la nostra, che non rinuncia alla voice off didascalica, più esplicita nella descrizione degli stati d’animo o dei pensieri di un personaggio. Credo che a raccontarlo in giro chiunque (almeno chiunque abbia a che fare con la letteratura, tranne giusto gli editor di Rossari) dirà che la ragione sta dall’altra parte, in chi le cose le mostra anziché dirle. Pur non avendone mai frequentata una, giurerei che questa sia la regola principale che viene insegnata nelle scuole di scrittura creativa, e che in queste scuole, cioè il posto dove più facilmente gli insegnanti sono contestati dagli allievi, questa regola venga accettata da tutti come un dogma di fede.

Forse si potrebbe addirittura sostenere che in quel motto si annida un’efficace definizione della letteratura, che è in fondo un modo diverso per dire le stesse cose di sempre. C’era anche qualche scrittore italiano famoso, se non ricordo male, che soleva ripetere una variante di quel motto, e cioè: “lascia che sia il lettore a fare 2+2”. Ciononostante ho forti dubbi (quindi sto aggrottando la fronte) sul fatto che si debba per forza seguire quella strada. O meglio, che la strada del mostrare sia preferibile a quella del dire, soprattutto se il mostrare si articola in una serie di gesti, mimiche e atti talmente eloquenti e codificati (tipo “aggrottare la fronte”), da risultare completamente interscambiabili con la loro esplicitazione (“era perplesso”).

L’unico scrittore buono è quello morto

marzo 13, 2012

Se è vero che la maggior parte della gente, entrando in libreria, decide se acquistare o meno un libro da ciò che legge nelle prime pagine, allora L’unico scrittore buono è quello morto, l’opera più recente di Marco Rossari, ha buone probabilità d’incontrare il favore del pubblico. All’inizio infatti c’è un piccolo e prezioso apologo sulla scrittura, intitolato “Dio e le carote”, in cui l’autore racconta con leggerezza due episodi della sua vita. Il primo è legato alla scuola. Pare che l’incubo di tutti gli studenti della scuola di Rossari fossero le carote, cucinate in modo immangiabile da una tizia soprannominata eloquentemente “la Lurida”. Angelino, un suo compagno di classe, fingeva di mangiarle e le metteva nella tasca del grembiule, per poi disfarsene una volta uscito. Un giorno il trucchetto fallì. Forse un delatore avvisò il preside, dal nome improbabile di Livorio Smricchio, e questi gli intimò di vuotare le tasche. Poi gli chiese “perché l’aveva fatto?”, e incassata la risposta (“per dispetto”) gli aveva mollato un manrovescio che lo aveva steso a terra. (more…)