C’è un aneddoto della biografia di Kafka che mi ha sempre affascinato. Riguarda il tempo in cui viveva a Berlino con Dora Diamant, l’ultimo periodo della sua vita. Pare che un giorno lui e Dora stessero passeggiando nel parco di Steglitz quando incontrarono una bambina in lacrime. Le domandarono il motivo del pianto e lei rispose che aveva perduto la sua bambola. Allora Kafka le chiese l’indirizzo di casa, dicendole che se l’avesse trovata gliel’avrebbe portata, e nei giorni seguenti le scrisse delle lettere come fosse la bambola perduta. In queste lettere la bambola raccontava alla bambina la sua vita senza di lei, le avventure che aveva. Purtroppo non se n’è conservata nessuna, solo il ricordo di Dora. Molti anni dopo vennero affissi dei manifesti per cercare di trovare la destinataria di quelle missive, una bambina che doveva essere nata nel 1917, ma fu tutto vano.
A ben vedere questo non è solo un racconto edificante sulla sensibilità di quell’uomo straordinario, che concepì un’opera per un solo lettore, ma è anche un apologo formidabile sulla volontà dell’artista di reificarsi fino a dar voce a chi non ce l’ha, fino a scoprire l’anima di ciò che definiamo comunemente inanimato. E ci insegna che la dicotomia oppositiva fra soggetto e oggetto, il primo attivo e il secondo passivo, è in fondo un’illusione di superiorità. Forse non c’è mai stato un periodo storico come questo in cui il soggetto è stato tanto assoggettato, tanto privato della propria volontà da ridursi a marionetta. E in ogni caso si tratta di un’illusione perché non vi è opposizione, soggetto e oggetto sono categorie relazionali, ciascuna detiene il senso dell’altra.